La prima di una serie di puntate sulla pervasività dell’autoritarismo del regime di Erdoğan anche al di fuori dei confini della Turchia
Oltre 30mila incarcerazioni, più di 150mila persone rimosse da impieghi statali e altre 600mila indagate con accuse di terrorismo, decine di estradizioni forzate in vari paesi e più di un migliaio di richieste di arresto a mezzo Interpol notificate anche a nazioni europee. Siamo, probabilmente, di fronte alla più grande operazione di controllo, spionaggio e persecuzione di individui sospetti su scala mondiale dai tempi della “guerra al terrore” dell’amministrazione Bush. Ora, però, è la Turchia a condurre questa nuova “crociata” e lo fa, in particolare, nei confronti dei membri del movimento dell’imam Fetullah Gülen.
“È da cinque anni che evito di passare davanti all’ambasciata del mio paese”, dice Umut (nome di fantasia), cittadino turco residente in Italia da oltre un decennio che preferisce restare anonimo. “Ho subito pressioni e minacce velate: non mi sento sicuro. Conoscono il mio nome, sanno che sono vicino al movimento dell’Hizmet e ora i funzionari diplomatici fanno in tutto e per tutto il gioco di Erdoğan: con la nuova costituzione del 2017, infatti, è lui a nominare direttamente gli ambasciatori. Ma in Turchia, in generale, ogni vincolo democratico è saltato e il paese assomiglia sempre di più a una dittatura. Non è solo una questione di chi detiene il potere, è l’intera struttura statale a essere cambiata diventando più repressiva. Non mi fiderei a tornare in Turchia, neanche se Erdoğan dovesse cadere. Non con queste leggi”.
Oltre ad arresti e indagini interne (che raggiungono oramai, come ricordato in apertura, cifre impressionanti), è in corso da parte dello stato turco un’operazione su vasta scala di “caccia all’uomo” a livello internazionale. A marzo 2018 in Kosovo e a settembre dello stesso anno in Moldavia , cittadini di nazionalità turca vennero letteralmente rapiti dai servizi segreti e condotti nelle prigioni anatoliche. La stessa sorte è toccata a connazionali residenti in vari stati africani ma anche nel sud-est asiatico.
In altri paesi, come quelli di “ascendenza turca” nel Caucaso meridionale, Ankara ha portato avanti negli ultimi tempi simili tentativi e nemmeno il territorio dell’Ue può dirsi esente dal fenomeno: nell’agosto del 2017, lo scrittore di origini turche Dogan Akhanli è stato arrestato dall’Interpol in Spagna, per poi essere rilasciato una volta fatta chiarezza dell’abuso del meccanismo di sicurezza internazionale da parte delle autorità legate a Erdoğan. Le continue richieste e il forte timore di ripercussioni da parte del governo turco hanno generato un atteggiamento remissivo quando non un esplicito supporto per gli arresti illeciti nei già menzionati Kosovo e Moldavia, ma anche in Bulgaria e Ucraina, e ora alcuni di questi stati sono sotto il giudizio delle istituzioni europee per violazione dei diritti dell’uomo. Altre domande di estradizione sono state avanzate dal governo di Erdoğan nell’est Europa, trovando però opposizione da parte di Bosnia Erzegovina, Albania, Grecia, Macedonia, Romania e Georgia.
In tutto ciò, è chiaro come il tentato golpe del 15 luglio 2016 segni una svolta. È da quel momento infatti che l’imam Fethullah Gülen e i suoi seguaci vengono formalmente accusati dal governo di aver orchestrato la destabilizzazione dello stato turco. Il movimento, già formatosi in origine alla fine degli anni ‘60, ha gradualmente aumentato il proprio seguito nel corso del tempo fino a costituire un’importante forza sociale e politica non solo nella repubblica mediorientale, ma anche in altri paesi dove sono state fondate scuole e associazioni, riunendo attorno a sé personalità religiose, imprenditoriali e funzionari di vari campi. Per un certo periodo, tra l’altro, si è verificata una forte vicinanza con l’Akp: il partito di Erdoğan e le realtà legate a Gülen si sono supportati a vicenda durante l’ascesa del primo, fino (almeno “ufficialmente”) agli importanti “strappi” dello scandalo per corruzione del 2013 e, appunto, al tentativo di golpe di tre anni più tardi. Così, il movimento religioso è ora dichiarato “associazione terroristica” e i suoi membri (o presunti tali) arrestati, processati e il più delle volte rinchiusi in carcere. Per lo stesso Gülen, che risiede negli Stati Uniti dal 1999, la Turchia continua ad avanzare una richiesta di estradizione (sempre rifiutata).
Prosegue Umut: “Il governo turco ha creato dal nulla una nuova definizione per il movimento dell’Hizmet: Fethullahçı Terör Örgütü (FETÖ), ovvero “gruppo terroristico dei seguaci di Fetullah”. Si tratta di un’operazione dal chiaro intento diffamatorio, volta anche a cambiare la percezione degli altri abitanti nei confronti di chi segue gli insegnamenti di Gülen. In realtà, il nostro modo di vivere la fede cerca di essere il più possibile aperto al dialogo. Proviamo a entrare in contatto con diverse confessioni, condividendo opinioni e prospettive”.
Come si accennava più sopra, nel corso degli anni il movimento si è radicato in vari paesi, fondando per iniziativa dei suoi membri istituti educativi e centri di dialogo interreligioso. Anche sul territorio italiano sono presenti tre realtà variamente ispirate ai principi dell’Hizmet: l’istituto Tevere a Roma, l’associazione Alba a Milano, Torino, Como e Imperia e l’associazione Milad a Modena e Venezia (alcuni di questi che, però, sembrano aver cessato le proprie attività nel 2016, poco dopo il golpe).
La “comunità gulenista” nel nostro paese conta poche centinaia di persone, niente di paragonabile ad altri contesti europei, come Germania o Svezia, dove esiste in generale una diaspora proveniente dalla Turchia molto più consistente. Questo, però, non la mette al riparo da soprusi e tentativi di repressione. “Sono senza documenti da quasi due anni ormai e non ci posso far niente”, racconta infatti Dilek (altro nome di fantasia), cittadina turca residente in Italia che vuole restare anonima. È cresciuta nel nostro paese, in cui si è trasferita con la famiglia sin dai tempi delle elementari, e si è avvicinata al movimento dell’Hizmet per vivere la fede islamica in modo più “aperto e tollerante”.
“Mi sono sposata con mio marito attraverso rito religioso nel 2017 e mi ero recata al consolato per formalizzare l’unione anche dal punto di vista civile. Ma, dopo che ho consegnato il passaporto, i funzionari mi hanno fatto accomodare in una stanza chiusa, dove mi è stato comunicato che mi avrebbero ritirato il documento. Nessuna spiegazione, nessun foglio o verbale che attestava quello che era appena successo. Mi è stato detto: ‘Sai benissimo perché ti ritiriamo il passaporto’, nient’altro. Credo che la loro tattica sia spingere gli emigrati ‘sospetti’ a tornare in Turchia, dove possono essere processati e arrestati con maggiore facilità: anche a me è stato infatti detto che sarei dovuta tornare lì per riavere i documenti. Non so come mai mi hanno preso di mira: non mi sono mai esposta sui social, non ho tessere di alcun tipo e la mia affiliazione al movimento non è certificata in alcun modo. Immagino siano stati altri cittadini turchi che vivono nella mia regione ad aver fatto il mio nome all’ambasciata”.
D’altronde, è lo stesso presidente turco a porre pressioni affinché, oltre alle agenzie direttamente legate al governo, anche la popolazione turca all’estero si mobiliti per identificare i sospetti. Si tratta di una strategia che sta creando numerose tensioni a livello diplomatico, nelle forze politiche dei vari paesi e all’interno delle comunità della diaspora che si trovano spesso divise. Proprio durante le ore in cui avveniva il tentativo di golpe del 2016 in Turchia, tra l’altro, la sede dell’associazione Milad di Modena è stata oggetto di un attacco incendiario .
Capita, inoltre, che le ambasciate impediscano a cittadini turchi residenti in Italia e ritenuti “sospetti” di registrare la nascita dei propri figli, i quali dunque rimangono apolidi. “Io non mi fido più neanche dei miei parenti che vivono in Turchia”, dice la ragazza a cui hanno ritirato il passaporto. “Bombardati dalla propaganda di Erdoğan, credo che alcuni di loro non ci penserebbero due volte a denunciarmi e farmi arrestare”.
Sono storie esemplificative di una tendenza globale, che ha – soprattutto ai confini dell’Ue – conseguenze sempre più lancinanti e porta a gravi violazioni dei diritti umani. Una tendenza che, dunque, dovrebbe trovare una ferma risposta da parte delle istituzioni.