L’intera vita, e purtroppo anche l’avventura politica, di Benigno Zaccagnini, scomparso trent’anni fa all’età di settantasette anni, è stata segnata dalla tragedia del delitto Moro.
L'”onesto Zac”, com’era soprannominato a testimonianza della sua integrità, era uno dei principali esponenti di quella classe dirigente nata dal crogiolo ardente della Seconda guerra mondiale, dopo aver contribuito a liberare la Romagna dal nazi-fascismo insieme a un avversario, di cui era anche profondamente amico, come il comunista Arrigo Boldrini, il mitico comandante Bulow.
Il partigiano Zac ricoprì importanti incarichi di governo, accostandosi alla corrente morotea e dando vita, negli anni Settanta, a una nuova svolta a sinistra della Dc che avrebbe dovuto condurre il partito al compromesso storico col PCI e il Paese in una nuova fase, dopo gli anni esasperanti del centrismo e il positivo allargamento dell’area di governo a sinistra con il coinvolgimento dei socialisti nei primi anni Sessanta.
Non aveva, purtroppo, lo slancio visionario del suo maestro, non ne possedeva il carisma e la capacità di precorrere i tempi, non era un costruttore di immaginari né un sognatore di orizzonti apparentemente irraggiungibili. Non era, tuttavia, neanche un mero gestore dell’esistente, come dimostrano i rischi personali che si è assunto nel corso di un’attività politica lunga, intensa e non certo priva di ostacoli e di avversità.
Figlio di quella generosa terra di Romagna in cui i comunisti e i democristiani sembravano usciti tutti dalla penna del Guareschi, Zac è stato a lungo il punto di riferimento di quanti auspicavano uno spostamento a sinistra della Democrazia Cristiana, portando avanti il filone avviato da Moro durante il congresso di Napoli del ’62 e bruscamente interrottosi nel ’71 con l’elezione di Leone al Quirinale, con il sangue ancora caldo di piazza Fontana a condizionare irrimediabilmente il dibattito politico italiano.
La sua disfatta personale avvenne, come detto, nel 1978, quando, oltre a dover gestire una situazione ingestibile, fu definito da Moro stesso “il più fragile segretario che abbia mai avuto la DC”, il che, conoscendo la lucidità e la profondità d’analisi dello statista pugliese, benché messa a dura prova dalla prigionia nel covo brigatista, minò irreversibilmente le certezze e, forse, anche la salute del povero Zac.
Sbagliò drammaticamente durante il sequestro, quando perseguì e difese con tenacia la disumana linea della fermezza: un errore condiviso con il PCI di Berlinguer che, non a caso, portò entrambi i partiti all’esaurimento di quella che all’epoca si sarebbe chiamata la “spinta propulsiva”, ponendo di fatto fine alla Prima repubblica senza che vi fossero più le condizioni per andare oltre. E così, nel gorgo della nostalgia, dei rimpianti e gravato dal peso di una sconfitta epocale, lo sventurato Zac ha trascorso il suo ultimo decennio di vita con l’animo di un sopravvissuto, non avendo, probabilmente, più molta voglia di sopravvivere a una disfatta che considerava personale e collettiva.
Amava molto una canzone romagnola, il cui testo è stato scritto da Aldo Spallicci: “A vegh par la mi strê / incontra a la mi guëra, / s’a chésch a chésch in tëra / zidenti a ch’i m’ tô sò” (“Vado per la mia strada / incontro alla mia guerra, / se casco casco in terra / accidenti a chi mi tira su”).
Nessuno l’ha mai tirato su. Il tormento ebbe la meglio su un uomo buono travolto dagli eventi.
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