“Scusami, Silvia. Mi perdoni, signora Romano”

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Faceva un tempo schifoso, come una qualunque di queste mattine in cui Milano e la pioggerella e il grigio sembrano una trinità inscindibile. Ricordo l’arrivo della notizia del rapimento di Silvia Romano, il primo tam tam dalla redazione, la dritta sull’indirizzo in zona Casoretto, l’arrivo simultaneo del collega e amico Franco. Ci facciamo forza insieme e citofoniamo. La mamma di Silvia apre subito il portone, probabilmente confondendoci con i funzionari di polizia che dovevano aggiornarla sul rapimento. Saliamo insieme, senza telecamere, quattro piani in un tempo lunghissimo per l’imbarazzo, e l’intrusione. Ricordo il viso tirato, la sua voce ferma, la cortesia con cui ci congedò in pochi secondi e senza una sola parola sul rapimento. Lo stesso dignitoso silenzio che la famiglia ha scelto di utilizzare in questi mesi di angoscia e speranza. È passato un anno -oggi- e a quella mattina penso spesso. Facciamo un mestiere che accorcia i confini, che ti porta -tuo malgrado- a stretto contatto col dolore degli altri. Dolori di persone che si trasformano improvvisamente nella NOTIZIA. Non c’è un manuale di istruzioni perché quel dolore è un sentimento personalissimo, non cedibile, insondabile: la stampa può esserne una “grancassa civile”, oppure  ritirarsi in buon ordine. Gli unici argini al cattivo gusto sono l’empatia, la buona educazione, l’idea alta di giornalismo che non si è disposti a sacrificare per una mezza battuta, un insulto o una porta sbattuta in faccia. Scrivo queste poche righe perché quell’intrusione, ad un anno di distanza, mi sembra ancora forzata. Vorrei chiedere scusa a Silvia, alla sua mamma e alla sua famiglia. Spero di potergliele porgere presto, di persona, quando potrà tornare a Milano e questo incubo (nato solo dal desiderio di un mondo migliore, diverso, possibile) sarà concluso.


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