Difficile non aver sentito parlare di Augusto Pinochet. In Cile, durante la sua feroce dittatura, durata dal 1973 al 1990, furono torturate, uccise e fatte barbaramente sparire almeno trentamila persone, le stime più accreditate parlano di 35mila. Dunque nel volgere di 17 anni sono morte, tra atroci tormenti con ogni probabilità, un numero di persone impressionante. Ma prima di parlare di numeri impressionanti bisogna pensarci bene. Perché secondo stime approssimate probabilmente per difetto, negli ultimi 15 anni, non 17, i naufraghi morti mentre tentavano di attraversare il Mediterraneo sono stati altrettanti. Dunque un dittatore efferato come Augusto Pinochet ha fatto qualche morto in meno di un fenomeno al quale ci siamo abituati?
Si tratta di cifre che devono far riflettere. Non si può giocare con la vita di una persona, figurarsi con quella di decina di migliaia di persone. In questi anni però è divenuto abituale, usuale, normale, parlare della sicurezza delle coste, non della sicurezza delle persone. Sembra che la sicurezza sia un mantra svincolato dalla realtà: di quale sicurezza si può parlare se non si parte dalla sicurezza di chi è in pericolo?
E’ esagerato dire che uno “spettro di aggira per il Mediterraneo, lo spettro di Pinochet”. Sì, è esagerato perché qui nessuno ha intenzionalmente deciso l’eliminazione di queste 35mila persone. Ma quando Caino rispose a chi gli chiedeva di suo fratello Abele “sono forse io il custode di mio fratello” a cosa si appellava? Sapeva di mentire, certo, ma invocava il diritto all’indifferenza. Quello avrebbe potuto coprirlo. L’indifferenza era la sua ultima speranza. Pinochet non è stato indifferente, neanche Caino, ma l’indifferenza non è l’alternativa alla loro scelta di morte. L’alternativa è sentirsi responsabili di chi è in difficoltà.
Sentire questa responsabilità e non nascondersi nell’indifferenza è il passo che manca alla nostra posizione per poter giustificare un altro naufragio al largo della coste, come è accaduto ieri. “Sono stato responsabile, ho fatto quel che posso, ma non sono riuscito sempre.” Va bene, in questo caso si potrà capire, comprendere, soffrire ma giustificare. Ma se l’indifferenza viene poi coperta da una idea astratta di sicurezza, per cui la teorica sicurezza delle nostre coste va garantita da un ipotetico rischio e non la vita di chi è in pericolo certo, allora siamo noi in pericolo.
La nostra civiltà è in pericolo, i suoi fondamenti, la sua storia, i suoi capisaldi. La questione economica potrà anche essere dibattuta, la questione dei numeri potrà essere valutata. Ma come? Potrà essere valutata in termini politici: davanti a questa “emergenza” come fermarla? Per noi questo flusso migratorio è esagerato, cosa possiamo fare per ridurlo ? Qui gli scenari possono essere tantissimi, si dovrebbe partire dal riconoscere che una parte dei questo flusso migratorio ci fa bene, è indispensabile, poi si dovrebbe discutere se flusso migratorio sia una cosa e flusso di asilanti altra: l’unico scenario da escludere è sperare di mettere un tappo nel mare e lasciare che ci si trova dentro vada al creatore. Questo è impossibile. Le possibilità di intervento non mancano: da quelle militari a quelle economiche, da quelle unilaterali a quale multilaterali. Un grande confronto europeo su questo sarebbe oggi tardivo ma indispensabile. Discutere gli errori del passato, le scelte del passato, i guasti causati da ognuno. E i fatti concreti di oggi. Come pensare che l’Europa possa sopravvivere vicino a fosse comuni subacquee, a gulag nel deserto, ad aste di schiavi, a neonati che affogano?
Torniamo un momento con la mente ai numeri nostri ed a quelli Pinochet. Non vorrei essere tornato indietro nel tempo, e scoprire che non sono più tra la Parigi dei lumi, la Firenze del rinascimento e la Vienna di fine Ottocento, ma… altrove. Diciamo così.