I luoghi in cui si arriva volontariamente sono quelli in cui ci si perde. Dentro. E’ uno spaesamento interiore a investire la vita di Ocho, il protagonista di “Fin de siglo”, opera prima dell’argentino Lucio Castro, in concorso al Torino Film Festival 2019.
L’elemento che sorprende immediatamente è la dimensione sonora del film. Lunghi, lunghissimi minuti privi di dialoghi in cui il rumore di una Barcellona estiva e imprevedibile – traffico, strade, passanti – invade letteralmente lo schermo prima di schiantarsi nel silenzio assordante della camera d’albergo di Ocho (Juan Barberini). E’ un silenzio oppositivo e riflessivo su cui indugia a lungo la telecamera sia attraverso l’utilizzo del teleobiettivo – a sottolineare il distacco dei personaggi dal luogo fisico in cui si muovono – che di piccoli quadretti personali che inquadrano la “flanella” di Ocho per la città, quasi un fondale irrilevante.
Un silenzio spezzato solo dalle linee dure e geometriche delle architetture cittadine, dagli sguardi desiderosi di Ocho e, finalmente, dalla prima parola – “kiss” – che campeggia sulla maglietta di Javi (Ramon Pujol), adocchiato prima in spiaggia, poi per strada.
L’incontro, una birra, il sesso impellente, impudico e prepotente, spezzano la monotonia della breve vacanza di Ocho, così come la voglia di confrontarsi, soprattutto sull’amore: “non è forse – sussurra Javi – una partita a scacchi?” Quell’incontro fugace però ricaccia i protagonisti improvvisamente indietro, perché in realtà i due si sono conosciuti e amati vent’anni prima. Se Ocho oscilla ancora tra il marketing e la poesia, Javi ha un compagno e vive a Berlino, nella sicurezza di un rapporto stabile, esaltato pure dalla presenza di una figlia.
Eppure è proprio nelle certezze effimere di tutti – le nostre, dunque – che si aprono gli interrogativi di sempre. Da un lato, il desiderio di rimanere soli, di aprirsi ad una condizione irresponsabile e illimitata; la monotonia che il tempo impone anche sugli affetti più cari; dall’altro la disciplina imposta dal prendersi cura di un’altra persona (il tema della paternità emerge tra le righe); di imporsi una “ratio” sentimentale (e sessuale) anche nell’eventualità di una improbabile catastrofe: il nuovo millennio, la “Fin de siglo” appunto, su cui Javi stava girando, durante il primo incontro con Ocho, un documentario (ormai da troppo tempo) che doveva inaugurare la sua carriera di regista. E forse uno dei temi portanti è proprio la paura dell’indefinito, di ciò che di nuovo ed inaspettato ci attende nel nostro essere gettati nel mondo. L’altro protagonista di “Fin de siglo” è il Tempo: passato, presente e possibile. Un tempo soggiogato però alla memoria e dalla memoria, non sempre percepibile, in ogni caso fallibile e soggettivo, trasfigurato: chi ricorda cosa?
Nelle lunghe pause nelle quali Ocho e Javi – lungo il flashback che si impone per quasi tutta la seconda parte del film – si raccontano le loro “nuove vite” (e al contempo le loro “vite nuove”) abbiamo avuto l’impressione che fosse lo stesso Lucio Castro a ritagliarsi uno spazio privilegiato per riflettere sui temi della sua narrazione e che questi, quasi, uscissero dal film e si imponessero per la loro stessa forza. “Fin de siglo” è un film poeticamente crudo, che nonostante attraversi alcuni vuoti e sfasature, rimane un’opera coraggiosa e dotata di una certa carica di “pathos post-contemporaneo”, di irrisolvibilità e di tensione esistenziale.
A confortarci è anche la mancanza di una colonna sonora “istituzionale” – anche a prescindere dalla celeberrima “Space Age Love Song” di A Flock of Seagulls – la cui funzione trans-temporale è invece delegata alla meravigliosa voce di Sonia (Mia Maestro) ex di Javi, che proietta la storia in un territorio sterminato e ormai perso, in cui nostalgia e rimpianto, desiderio e irreparabilità di ogni scelta svaniscono e si ricompongono nella indecifrabilità di tutte le vite.