Firenze – Che l’inferno concentrazionario dove si consuma il finale di partita fra i tre personaggi femminili di Che fine ha fatto la piccola Stella? sia una casa – grande – è un elemento che perde rapidamente rilievo; altrettanto marginale risulta collocare l’azione negli anni ‘90. L’ambiente si smaterializza in ring ansiogeno dove il passato non passa, impedendo l’evoluzione dell’identità. Anni addietro si è verificato un ‘incidente’ d’auto dalla meccanica abbastanza confusa e dalle conseguenze irreversibili: Ginevra si trova confinata su una sedia a rotelle che può avanzare o indietreggiare di pochi metri nella camera posta su un piano leggermente rialzato rispetto al resto dello spazio scenico ed è in tutto dipendente da Stella, la sorella minore instabile e alcolista, la cui sopravvivenza è legata al denaro di Ginevra. Il senso di colpa che tormenta Stella giorno e notte come una spina nel cervello sembra all’origine di un rancore sarcastico sempre più livido e minaccioso. In realtà la rivalità speculare e l’alternarsi della dipendenza fra le due donne è iniziata molto prima, addirittura durante l’infanzia, quando Stella – vezzosa diva bambina – riempiva i teatri cantando e intrattenendo il pubblico grazie a un precoce talento naturale. Spinta da una pulsione emulativa, Ginevra ha studiato canto nelle migliori scuole e si è affermata nel mondo della musica, relegando Stella in un ruolo sociale di marginalità parassitaria.
L’incidente ha fermato il tempo, permettendo a voci, immagini e situazioni continuamente evocate – revenants da retrobottega bergmaniano – di insediarsi nel presente, divorandolo. Il punto di crisi viene introdotto dall’arrivo della governante Rita – héroïne hichcockienne tratteggiata con intensità e misura da Bettina Bracciali -, che riporta il rumore del mondo di fuori nel delirio a due delle protagoniste e incoraggia Ginevra (Eleonora Cappelletti) a disfarsi della casa, troppo grande e costosa, e della sorella, chiudendola in una clinica per malattie nervose. Potrebbe essere la traccia di uno straordinario hard boiled anni ’50, ma il testo asciutto e ansiogeno di Simona Almerini trascina i modelli di genere in zone più ambigue. L’attenzione è rivolta a un più specifico schema di autocoercizione morale all’interno del rapporto di accudimento, e di ciò che ne consegue. La difficoltà di convivere con una costante sensazione di colpa, mitigata soltanto dall’alcol, e il bisogno di soldi e di un tetto diventano i carcerieri di Stella, precipitandola in un’aggressività crescente, alimentata anche dal culto patetico di fasti, veri o immaginati, ormai trascorsi.
Sono l’istinto di sopravvivenza e l’antagonismo a determinare le azioni successive di Stella, ormai sconnesse dalla realtà, mentre il buio si addensa sui muri rendendo l’ambiente soffocante. Non esiste più il tempo, solo un’immobilità estranea all’alternanza notte/giorno che partorisce gesti inconsulti e violenti, come l’assassinio di Rita da parte di Stella – o meglio, la piccola Stella, di cui Cristina Bacci riproduce, per mezzo di mossette, bronci e gesti simbolo dell’angoscia dei bambini, lo spavento e il disorientamento ormai incontrollabili –. I corpi diventano protagonisti: quello sofferente – affamato, disidratato, percosso – di Ginevra e quello di Stella, compresso dentro una gestualità infantile patologica.
Mentre strutture e personaggi cadono in un’oscurità senza speranza – uno sheol che si chiude sopra e intorno a intenzioni, malintesi, antagonismi, illusioni perdute -, ci sarà ancora spazio per qualche inaspettato gesto di tenerezza, per una confessione inascoltata e per il ricordo di un chiosco di gelati sulla spiaggia.
CHE FINE HA FATTO LA PICCOLA STELLA?
Di Simona Almerini
Con Cristina Bacci – Eleonora Cappelletti – Bettina Bracciali
Costumi Fiamma Mariscotti
Scenografia Lorenzo Scelsi
Tecnico Audio/Luci Sara Manzi
Regia Pietro Venè