Al pari di tutti i veri protagonisti della vita pubblica, Mario Draghi è stato molto ammirato, molto invidiato, molto contestato e, infine, applaudito pressoché all’unanimità, anche dai critici di ieri, oggi convintisi che senza di lui il Vecchio Continente sarebbe diventato poco più di un’espressione geografica. Era il 26 luglio 2012, lo spread in Italia era sopra i 500 punti, la Spagna era ridotta in ginocchio, la Grecia e il Portogallo non ne parliamo e il concetto stesso di irreversibilità dell’euro era messo pesantemente in discussione. Draghi intervenne a Londra e pronunciò tre semplici parole: “whatever it takes”, qualunque cosa serva. Annunciò pubblicamente che la Banca Centrale Europea, di cui da pochi mesi era diventato governatore, avrebbe fatto qualunque cosa per rendere irreversibile la moneta unica, definendola il pilastro essenziale del nostro stare insieme nonché la più grande conquista di un continente che, non perdiamolo mai di vista, grazie ai suoi accordi e ai suoi progressi verso l’unità, ha garantito un periodo di pace che non c’era mai stato in precedenza.
Non ci dimentichiamo che non erano mai trascorsi settantaquattro anni senza un conflitto. Non ci dimentichiamo che il sogno europeo nacque sulle macerie di un’Europa squassata da una guerra che aveva condotto sei milioni di ebrei nei forni crematori e provocato la morte di quasi sessanta milioni di persone. Non ci dimentichiamo che l’euro, di questa costruzione, non è una parentesi o un orpello ma un passaggio essenziale, non a caso voluto e difeso da un grande patriota, ma al contempo da uno straordinario europeista, come il presidente Ciampi.
E Draghi, formatosi alla scuola di Ciampi, direttore generale del Ministero del Tesoro negli anni prodiani che condussero all’approdo dell’Italia nell’euro, il più americano dei banchieri europei, garbato e signorile come poche altre figure dell’asfittico panorama contemporaneo, ha avuto la forza di tenere duro, di non rassegnarsi al declino che, a un tratto, appariva inevitabile, di contrastare la disgregazione di un paese sull’orlo dell’abisso come la Grecia dopo il referendum del 2015 ma, soprattutto, dopo le dissennate politiche di austerità imposte al governo Tsipras dall’indifendibile Troika, di opporsi ai falchi di ogni colore e di tenere dritta la barra di una comunità di cinquecento milioni di cittadini che ha rischiato spesso di andare a sbattere.
Draghi, con il Quantitative Easing, ossia con l’acquisto costante dei titoli di stato, ha salvato intere nazioni dall’incubo dello spread. Non pago, ha messo in atto tutte le misure possibili e immaginabili per rilanciare la crescita, chiedendo in cambio ai governi unicamente il rispetto degli impegni assunti e di non sbandare sul tema cruciale delle riforme strutturali.
Non ha mai avuto, checché se ne dica, una visione liberista, non ha mai avallato il massacro sociale che alcuni osservatori, erroneamente, gli hanno attribuito, ha sempre cercato di contrastare l’ascesa del populismo e, nonostante questo, ha rispettato chiunque, comprese le forze politiche più lontane dalla sua visione del mondo. Come ha affermato l’ex commissario agli Affari economici, Pierre Moscovici: “Mario Draghi avrà un successore, non sarà sostituito”.
Torna, otto anni dopo, in un’Italia incattivita, volgare, devastata dall’odio e da una guerra civile a bassa intensità.
Qualunque ruolo scelga per il suo futuro, siamo certi che saprà essere ancora un abile demiurgo, ricucendo, con pazienza e straordinaria competenza, gli strappi e le ferite di una democrazia sempre più in affanno.
“Never give up”, non arrendersi mai.