Maria Grazia Cutuli aveva trentanove anni quando cadde, il 19 novembre 2001, nell’Afghanistan dei talebani, precisamente a Sarobi, sulla strada fra Jalalabad e Kabul, mentre stava svolgendo il suo mestiere con la perizia e la scrupolosità di sempre. Quel giorno non cadde solo una donna umile e coraggiosa ma una certa idea di giornalismo. Cadde l’idea di un giornalismo pulito che consuma le scarpe e si reca nei luoghi in cui i fatti si svolgono anche a costo della vita o di atroci sofferenze. Cadde una visione del mondo, intenta a scoprire, conoscere e capire, senza puntare il dito né giudicare in maniera affrettata o in base a pregiudizi dettati da una propaganda asfissiante che all’inizio di questo secolo ha condotto il mondo sull’orlo dell’abisso. Cadde per descrivere la sporca guerra di uno dei peggiori presidenti americani, Bush, il quale, poche settimane dopo la tragedia delle Torri gemelle, andò a impelagarsi nell’inferno afghano, come se una reazione tanto isterica quanto dissennata come quella del sedicente “war president” fosse la risposta naturale a un bisogno diffuso di giustizia e umanità. E cadde per raccontare l’altra sporca guerra: quella dei talebani oscurantisti, di uomini violenti, irrispettosi, ferini, portatori di odio e di barbarie, carcerieri delle donne, costrette a indossare il burqa e private delle più elementari libertà, signori e padroni di un territorio importante ma purtroppo senza pace.
Maria Grazia, però, non scriveva mai separando l’istinto e le passioni fortissime, che pure aveva (collaborava con l’UNHCR, l’agenzia delle Nazioni Unite che si occupa di rifuguati), dalla realtà dei fatti. Scriveva con rabbia, certo, con la dovuta indignazione, ma senza mai pensare di essere portatrice di chissà quale verità né ergendosi a paladina e portavoce di un Occidente di cui, al contrario, riconosceva e denunciava tutte le colpe.
Rifiutava, in poche parole, il concetto di guerra di civiltà, di scontro fra popoli, persino l’idea che fosse in atto un conflitto fra due concezioni dello stare insieme. Era convinta, all’opposto, che si trattasse di una guerra di interessi indicibili, di una violenza indotta dagli stessi che avevano straziato il paese per due decenni e di un orrore dalle radici antiche, risalente al conflitto con i russi in cui l’America si era schierata dalla parte degli invasi, salvo non rendersi conto, diciamo così, che a combattere i discutibili invasori non era solo una cittadinanza fiera come poche altre al mondo ma, più che mai, le bande di criminali che, negli anni successivi, oltre a condurre l’Afghanistan all’età della pietra, fomentarono il terrorismo e arrecarono colpi durissimi alle nostre effimere certezze.
Era forte e fragile al tempo stesso, dolce, generosa, sincera. Una “giornalista-giornalista”, sempre pronta ad andare di persona, a vivere sulla sua pelle il dolore e la sofferenza del prossimo, a farsene carico, a parlarne senza arroganza e a scrivere con delicatezza, con estrema dolcezza, col rispetto che si deve alle vittime e, anche se può sembrare incredibile nella logica della faida attualmente in auge, persino ai carnefici.
Maria Grazia, diciotto anni fa. La sua assenza è un vuoto straziante ogni volta che servirebbero gli occhi giusti per andare in profondità e descrivere la follia del mondo senza banalizzazioni e senza omettere alcun dettaglio, compresi quelli che nessun potere vorrebbe mai leggere sulle pagine di un giornale.
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