Quasi certamente “Scene da un matrimonio” (del 1973) è il più noto, “divulgato” e periodicamente riprogrammato (in cinema streaming) paradigma bergmaniano del dramma borghese, irrorato di umori densi e contrastanti: dalla ‘stanziale’ indifferenza della coppia in assopimento di desiderio alla passione fuggente e ritrovata; dal tradimento alla gelosia (allo stato brado); dalla ‘fine’ del desiderio (causa quotidiana usura dei ruoli inamovibili) al ritrovarsi amanti e clandestini, nel segreto di una relazione da occultare ai nuovi partner.
Ispirandosi con rigorosa ma autonoma devozione al teatro di Ibsen e Strindberg (“Casa di bambola” e “Danza macabra”- in particolare), Ingmar Bergman concepì e approntò “Scene da un matrimonio” nel format di sei episodi televisivi che, valutati con il (personale) senno di poi, anticipavano quel “primato dell’anima borghese”. La quale, almeno in Europa, avrebbe fatto poltiglia dei Movimenti di Liberazione scaturiti dal Maggio Francese e sancito quel “ritorno al privato” che fu spina al fianco di ogni dissenso del Sessantotto e dintorni. Individuando, peraltro, nei bei volti (e duttili espressioni) dei 40enni in ambascia (superlativa performance e physique du role di Liv Ullmann e Joseph Josephson) gli stili di vita in bilico o non più sostenibili nello ‘spazio fisico e mentale’ di un millimetrico kammerspiel.
Realizzato con lo ‘studiato spontaneismo’ di uno sguardo semplice,maieutico, distaccato (molti dialoghi, niente musica, molti primi piani, pochissimi movimenti di macchina) il film di Bergman – scaturito da esigenze autobiografiche ed autoanalitiche (“tre mesi per scrivere il soggetto e sceneggiatura, una vita perche imparassi”- annotava l’autore)- ebbe, a più riprese e com’era inevitabile che fosse, più di una trasposizione scenica. Di due delle quali – quelle curate da Gabriele Lavia e Monica Gierritore e l’altra con Daniele Pecci e Francesca Inaudi- ritrovo due frasi di critica che trascrivo d’istinto: “ragionata e appassionata” la prima, “stilizzata e sterilizzata” la seconda. In entrambi i casi, pareri più che positivi da pubblico e critica.
Torna quindi imbarazzante, oggi, riferire di questa versione accreditata ad Andrei Konchalovsky (in assenza di adattatore, traduttore, scenografo e costumista da locandina e depliant di sala), ove a primeggiare sono vezzi, moine, baruffe chiozzotte di un’accoppiata piccolo-borghese espiantata (anzi ‘preso di peso’) dall’originaria Scandinavia (che sappiamo essere sincera ma spietata quanto rapporti umani) e trapiantata nella Roma oleografica e bozzettistica degli anni del “trapassato” benessere, istoriata di debutti srelheriani all’Argentina (per fare chic) e stucchevoli melodie sanremesi, trasmesse da cinegiornali o collegamenti televisivi in rigoroso bianco e nero (sfocato).
Inimmaginabile, quindi, che ad un mese di distanza da “Il silenzio grande” di Di Giovanni e Gassman (al Teatro Quirino) ci saremmo ritrovati, occupandoci del più blasonato “Scene da un matrimonio”, a reiterare gli stessi dissensi e senso di spiazzamento, come se ‘cadere dalle nuvole’ fosse nostra colpa – e non degli stilemi di palcoscenico. Singolare coincidenza o nuova, emergente tendenza? Non si sa. Resta immutata la banalizzazione del dramma borghese a mò di situation comedy (malvezzo catodico della prosa riprodotta dai linguaggi del piccolo schermo), rivisitata in trafelati affanni gogoliani e vispe, spigliate nonchalance da commedia leggera italiana anni sessanta (ricordate Delia Scala e Renato Rascel in “In giorno della tartaruga”, deliziosi nel loro contesto?)
Cosa aggiungere (mestamente?) Che allo psicodramma dei ‘ribattezzati’ Milenka e Giovanni manca, per lo meno, la cognizione, la lacerata esperienza del dolore (e, come evidenziava Bergman, dell’oneroso bagaglio morale che esso lascia in ‘dono’)
Quanto agli interpreti (collocati in anonimo ambiente pre-metropoli), non v’è dubbio che Julia Vysotskaya (che mi dicono essere la moglie russa del regista connazionale) è bella e snella: quasi spensierata nel suo iniziale vivere soffusamente e alla giornata- con quel filino di innocua beatitudine, genere “nata ieri”, e nel suo italiano (volenterosamente) scandito con accenti di madre lingua.
Mentre Federico Vanni, attore per sua natura cecoviano e massiccio, perfettamente a suo agio nel cinema lieve-stralunato di Alessandro Benvenuti (era nel cast di “Benvenuti a casa Gori”) risulta qui inadatto, molto corporeo e sinceramente azzardato per gli ésprit de finesse di un repertorio a lui lontano.
Allettato da prologo e premesse degne d’una singolare pochade o, per lo meno, di uno stravagante vaudeville, il pubblico applaude comunque. E noi ve lo diciamo.
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Scene da un matrimonio
Da Ingmar Bergman. Regia di Andre Konchalowsky. Con Julia Vysatskaya e Federico Vanni. Roma, Teatro Eliseo (e in breve tournée)