Fellini conservava i due tomi nello studio di Corso d’Italia, dentro un cassetto chiuso a chiave, il secondo a sinistra della sua scrivania. La mattina, arrivando presto in ufficio (quando non era impegnato sul set), prima delle visite, degli appuntamenti e delle telefonate, tirava fuori il librone e con i pennarelli colorati Staedtler (in precedenza anche con feltri ad alcol, lapis, penne biro, penne a china, persino acquarelli e matite grasse) vi ‘dipingeva’ con impegno serissimo il sogno della notte, tratteggiando personaggi e figure secondo il suo tocco leggero, scanzonato, caricaturale e malizioso. Riportava, se ce n’erano, le frasi e i dialoghi racchiusi nei balloon, come fossero personaggi dei comics, e spesso aggiungeva una nota personale di spiegazione o di commento. Era il suo unico e vero giornale di bordo, il suo diario, fonte di ispirazione e di riflessione; una spelonca delle ombre in cui preferiva avventurarsi da solo. Rare volte ammetteva la presenza discreta di qualcuno degli amici e dei collaboratori più fidati, sfogliando le pagine in una successione da lanterna magica e soffermandosi su quelle immagini o concetti di cui in quel preciso momento riteneva di avere più bisogno. L’elaborazione e la visitazione del Libro dei Sogni era un rituale propiziatorio e anche vagamente oracolare, per portare chiarezza nelle aggrovigliate vicende dell’esistenza o per facilitare il processo creativo, assicurare spazio vitale all’idea che stava felicemente prendendo forma nell’ambito del suo incessante travaglio cinematografico.
Un metodo di conoscenza, non troppo diverso dalla consultazione dell’I Ching, il libro orientale delle mutazioni, o la frequentazione di chiaroveggenti e sensitivi.
Il doppio volume rilegato, racchiudeva segreti, ma per uno come Fellini che aveva raccontato tutto il raccontabile nel suo cinema, il tabù era davvero trascurabile, fatte salve le attenzioni dovute ad alcuni delicati, personalissimi, equilibrismi sentimentali.
I due volumi del Libro dei Sogni, come si sa, giacevano nel caveau di una banca romana dall’anno della scomparsa di Federico (1993). Quando Fellini passò ad altra vita, Enzo De Castro, segretario fiduciario al quale i libri erano stati affidati all’insorgere della malattia, all’indomani del decesso dell’artista portò i tomi nell’appartamento di via Margutta; ma Giulietta, già molto malata e inappuntabile come sempre, non aveva neppure voluto sfogliarli. “Sono cose di Federico”, si limitò a commentare. Non manifestò nessuna curiosità per quei libroni, ma neppure li distrusse, e avrebbe potuto farlo. Quello era il mondo di Federico, il magma ribollente dei suoi film. E infatti leggendolo è possibile rinvenire ogni traccia che conduce direttamente all’opera del Maestro.
Giulietta agì con saggezza, i fogli in carta di Fabriano di quei due libroni contenevano raccontini e disegni che, seppure concepiti in sogno, si prestavano facilmente alla strumentalizzazione e allo scandalo. Non soltanto per il contenuto esplicitamente intimo e sessuale di tanti bozzetti, ma perché coinvolgevano noti personaggi ancora in vita, i quali avrebbero potuto soffrire dal trovarsi esposti alla curiosità morbosa di un pubblico impreparato.
Vivente Fellini il discorso sarebbe stato ben diverso, di natura artistica e pittorica; ed egli stesso avrebbe provveduto alla tutela degli interessati, con l’innato talento da prestigiatore a gestire ogni aspetto, anche il più delicato e rocambolesco, della comunicazione.
Da moglie assennata, Giulietta dispose che i due volumi fossero avvolti dentro un foglio di carta da pacchi, legati con uno spago e riposti al sicuro nel caveau della Banca Nazionale del Lavoro, Agenzia di via Veneto. Né prese minimamente in considerazione le offerte che le arrivarono per lettera dalle due maggiori case editrici italiane, Mondadori e Rizzoli, di acconsentire alla pubblicazione dietro un compenso allora stratosferico di un miliardo di lire come minimo garantito sui diritti d’autore.
Il problema concreto per i due tomi del Libro dei Sogni, espandibile del resto a gran parte della produzione grafica di Fellini, consiste nella loro estrema fragilità e nella vulnerabilità dei materiali. La carta, per quanto spessa e pesante, in ottimo filigranato di Fabriano, è pur sempre ricavata da impasto di cellulosa, una fibra organica deperibile; i colori, specialmente dei pennarelli ad alcool, sono evanescenti, tendono a sbiadire, a volatilizzare anche molto rapidamente se esposti alla luce e al calore. Inoltre Federico spesso procedeva disinvoltamente a ‘pastrocchiare’, come diceva lui, tra le pagine: aggiungeva, sovrapponeva, tagliava, integrava, intervenendo di forbici e colla, dalla coccoina alla gomma arabica, a ciò che aveva per le mani; utilizzava anche resine più acide, ‘carta gommata’, e nastri adesivi i cui componenti chimici, assieme ai residui fisiologici (ditate, saliva, sudore) svolgevano una costante azione corrosiva. Infine c’era il fattore tempo ad aggrava inarrestabilmente il processo di lento, progressivo deterioramento.
Così si espressero all’Istituto di Patologia del Libro di Roma (specializzato in antichi codici e miniature) al quale mi rivolsi quando ero direttore della Fondazione Fellini, nel proposito di ottenere una tutela dallo Stato e affrettare gli opportuni, augurabili, interventi conservativi.
A quel tempo avevamo acquisito in Fondazione le due quote ereditarie del prezioso lascito, appartenenti a Maddalena Fellini e Ritina Fellini, la figlia di Riccardo. Rimanevano le altre quattro, proprietà di Mariolina e Mario, sorella e fratello gemelli di Giulietta Masina, e di Simonetta e Roberto Tavanti, figli della sorella Eugenia già deceduta. Successivamente, alla morte di Mario, la ‘quota parte’ era passata al figlio Attilio. In seguito il legato ‘indivisibile’ sarà definitivamente affidato alla Fondazione di Rimini, e dopo il fallimento dell’Istituto, direttamente al Comune.
Nel Libro dei Sogni mancano alcune pagine – sono state tagliate ed è visibile il segno della lametta sulla carta – ma l’azione non può essere ricondotta che a Federico stesso. Nessuno ha messo mano a quella raccolta. E anche i fogli sparsi erano usciti dal libro per volontà dell’autore. Le pagine mancanti sono in numero maggiore delle pagine recuperate, la caccia resta aperta: il mago continua a disseminare sorprese.
Egli stesso aveva ceduto alla tentazione di portare alla luce alcune pagine di quel suo diario onirico a colori. La prima volta avvenne con gli amici Oreste del Buono e Lietta Tornabuoni editori per breve tempo di un periodico, Dolce Vita (1987-1988), in cui alcuni dei bozzetti fantasmagorici erano apparsi a tutta pagina, compreso il sogno del “Cinese all’Aeroporto” al quale Federico attribuiva un profondo significato di mutamento. La rivista mensile di grande formato (29 x 43 cent.), stampata a Bologna da Gedit, si interromperà al 23° numero.
La seconda occasione si verificò con Vincenzo Mollica, che allora dirigeva un mensile a fumetti editato a Firenze, Il Grifo. La testata dall’aprile 1991 per ben dieci puntate ospitò una nutrita silloge di quei raccontini notturni che Fellini si divertì ad annotare di suo pugno e a interpretare in chiave psicanalitica.
Infine, nel 1992, il regista ricorse ancora una volta al proprio deposito privato per realizzare un breve ciclo di spot pubblicitari. Strappò tre pagine del libro dei sogni che diventarono i soggetti di altrettanti brevi filmati: Il Pic-nic, La cantina del leone, Il crollo della galleria.
Era l’ultimo set che Federico avrebbe calcato.
Quando arrivai alla direzione della Fondazione Fellini, istituita a Rimini dall’allora sindaco della città Giuseppe Chicchi, e da Maddalena Fellini, sorella di Federico, il doppio librone era già concupito da editori italiani ed esteri, a iniziare da Daniel Keel, proprietario della Diogenes Verlag che negli ultimi anni Federico aveva eletto a curatore di tutti i suoi testi e disegni. Con lui nel 1988 aveva allestito a Parigi la prima mostra antologica dei disegni; e a lui venivano inviati tutti i bozzetti che Fiammetta Profili, segretaria del regista, raccoglieva in grosse buste e spediva a Zurigo. Dove sicuramente ancora esiste la più poderosa collezione al mondo della produzione grafica felliniana.
Scomparsi Federico e Giulietta, i due libri erano rientrati nell’asse ereditario delle reciproche famiglie.
Per me si trattava di evitare che per vie traverse e di fronte a un’offerta irrinunciabile, i legittimi eredi si coalizzassero per vendere l’opera al miglior offerente, non escludendo un collezionista straniero.
Alla Fondazione arrivavano proposte da capogiro. Un collezionista milanese, che aveva già acquistato dal prof. Pier Marco De Santi gran parte del fondo di Nino Rota, progettava di rinchiudere i libroni in una teca di vetro antiproiettile ed esporli a Palazzo Reale con adeguata scenografia fantascientifica: raggi laser, plateali sistemi antifurto, squadre di guardie giurate armate fino ai denti, effetti di luci ad alta suggestione. La coda per vederli, sosteneva, sarebbe stata chilometrica e solo con i biglietti di ingresso si sarebbe ottenuto un guadagno assai consistente. Insomma i volumoni avevano acceso la bramosia di molti. Per cui, forte anche del referto della Clinica del Libro sul precario stato di conservazione dell’opera, cercai di premere per ottenere la tutela da parte del Ministero dei Beni Culturali, o della Sovrintendenza. Ma non ci riuscii. Allora per salvare il salvabile ricorsi a Maddalena.
La sorella minore di Fellini stava male, colpita da una malattia degenerativa contro la quale non si conosceva cura: un progressivo deterioramento del tessuto epiteliale che, attaccando le mucose, presto le avrebbe impedito di assumere cibo, di digerirlo e dunque di nutrirsi e sopravvivere. Era condannata a una lenta, inesorabile fine. Lei ne era consapevole, ma grazie al suo carattere irruento e indomabile, non si arrendeva, mangiava quanto un canarino, si muoveva a fatica appoggiandosi al bastone, ma nonostante ciò conservava un’energia mentale impressionante e una lucidità che non la abbandonò neppure negli ultimi giorni della sua esistenza.
Fu lei a chiamarmi a Rimini per la Fondazione, in accordo con l’amministrazione cittadina; e fu lei che quando arrivai, mi tenne a balia. Io la raggiungevo nell’appartamento di via Oberdan 1, e lei mi ragguagliava sui personaggi della città, mi tracciava una mappa delle persone di cui potermi fidare e quelle da cui guardarmi; era ruvida, diretta, usava espressioni taglienti, spesso impietose e sovente molto comiche, ma di infallibile esattezza. Raramente si sbagliava, come potei sincerarmi in seguito.
Quell’estate Maddalena, durante una crisi più violenta delle altre, fu ricoverata all’Ospedale Infermi, e per qualche giorno sembrò che non si sarebbe ripresa. Raccolsi il coraggio e andai a trovarla un sabato mattina fuori dell’orario delle visite. Non ci mise molto a realizzare lo scopo della mia improvvisata: “Cosa debbo fare?” Mi domandò. Le spiegai lealmente il mio proposito: il libro dei sogni, proprietà indivisa fra i sei eredi delle due famiglie, andava assolutamente portato in Fondazione. Era l’unica misura di sicurezza per salvarlo da ogni altra speculazione, evitare che scomparisse prima o poi nelle mani di qualche collezionista estero e sparisse dall’Italia. Se lei mi consentiva di metterlo al sicuro, sarebbe appartenuto per sempre al patrimonio nazionale e al cenacolo degli studiosi, ben protetto dallo statuto di una istituzione pubblica.
Nelle condizioni in cui lei versava – le dissi senza reticenze – potevamo aspettarci il peggio, e dunque prima che fosse troppo tardi, cedendo la sua quota all’Associazione Fellini, avrebbe eretto una trincea invalicabile contro gli abusi. Eravamo infatti favoriti dalla volontà concordata tra gli eredi al momento del lascito, in base alla quale ogni decisione sulla sorte del Libro dei Sogni dovesse essere presa all’unanimità. Con quella partecipazione minoritaria la Fondazione avrebbe avuto diritto di veto su qualsiasi iniziativa non pertinente. E di fatto, una volta segnata la strada, ero fiducioso che un po’ alla volta il legato sarebbe finito a Rimini nella sua totalità.
Come infatti nel tempo si avverò. Grazie anche alla Regione Emilia Romagna che finanziò l’impresa con 253.000 Euro, necessari per assicurare alla Fondazione Fellini la custodia del prezioso reperto.
Le curiosità attorno all’opera misteriosa di Fellini crescevano a ogni nuova notizia che ne affiorava, gli interrogativi si moltiplicavano da parte di studiosi e appassionati: quando il Maestro metteva mano a quei disegni, in quali ore del giorno? Scriveva completamente da solo le analisi degne di uno psicanalista di professione? E inoltre, annotando tutti i suoi fatti più intimi e privati, pensava davvero di pubblicare un giorno un diario così scottante?
Per la verità Federico aveva maturato l’idea di rendere pubblici i suoi sogni, tornando dal viaggio a Tokio, dove nel 1990 era stato insignito del Premio dell’Imperatore. Quel popolo del futuro, sorridente gentile e misterioso, gli aveva fatto balenare una soluzione singolare: dare alle stampe in Giappone il diario trentennale del proprio inconscio, consegnarlo a un pubblico che avvertiva propizio, perché allo stesso tempo rispettoso, estraneo, e sinceramente affettuoso, amichevole.
Il regista iniziò a parlare di possibili editori nel 1991, l’anno in cui prese contatti concreti con Tullio Pironti; il quale infatti nella sua autobiografia “Libri e Cazzotti” riporta fedelmente l’incontro:
“Fellini mi aspettava a casa sua, a via Margutta. L’appuntamento era per le dieci del mattino.”
Il regista lo accolse in soggiorno, invitandolo a sfogliare insieme a lui il ‘grande album’:
“Sui fogli fluttuavano donne sontuose, grandi e suggestive matrone, corpi sinuosi, pieni, seni enormi, cosce immense, capigliature leonine. Tratti decisi davano un’eternità solida a quell’universo femminile, ridondante, avvolgente, insinuante, decisamente erotico. Spesso appariva anche lui. Non c’era mai Giulietta. Lei rientrò all’improvviso e ci vide esaminare i disegni. Non disse nulla, ma sembrò contrariata.”
E infatti l’accordo non ci fu.
“Alcuni giorni dopo – conclude così Pironti la sua narrazione – Fellini mi inviò una breve lettera. «La nostra nascente amicizia deve soprassedere alla pubblicazione del libro. Ci devo pensare. Ma Le prometto che se dovessi decidermi a pubblicare quei disegni, Lei sarà il mio editore.»”
Il Libro dei Sogni di Fellini, già stampato in Italia da Rizzoli nel 2005 e in Francia da Flammarion con carta, grafica e veste editoriale leggermente diversi dall’edizione italiana, è una doviziosa miniera di rivelazioni inconsce che può essere consultata come un viaggio nell’anima dell’essere umano; ma è insieme la libera scorribanda nelle fantasie (a occhi chiusi e aperti) di un artista fuori misura, l’incursione proibita nel laboratorio segreto di un mago.