Nelle Colonie Americane, i minutemen erano una particolare milizia, irregolare, composta da uomini molto validi e che non avevano più di 25 anni, in grado di entrare in azione all’istante, il “minuto” appunto, che compone la definizione del loro nome. I Patrioti americani si premunivano di avere compagnie di questo genere già nell’ultimo quarto del Diciottesimo secolo, durante i combattimenti della Guerra d’Indipendenza.
Margaret, interpretata da Laura Marinoni e George − Fabrizio Falco −, sono coloni americani, minutemen appunto, inviati al confine sud del paese come milizia civile armata − di una anacronistica carabina winchester a leva e ripetizione manuale, resa mitica nei film western e qui usata come metafora dell’etica del cowboy −, a difesa del territorio contro una fantomatica invasione dal sud dei “vicini serpenti” che infrangendo le leggi umane si renderanno colpevoli di innominabili rapine. Il paesaggio suggerito dalla scena è un deserto di sassi, un orizzonte scabro e sconfinato, uno “scenario della disperazione”, dove albergano un tavolo, sedie e l’improbabile campo da golf sintetico approntato da George. Si intuisce subito come le giornate, in questo isolamento dalla civiltà, siano ridotte all’attesa vigile del chimerico nemico che non arriva mai. In questa svestita “Fortezza” ultimo avamposto prima dei barbari − troppo facile il paragone con i Tartari di Dino Buzzati − il tempo fugge e la disciplina paramilitare che George impone e Margaret in principio accetta, quindi subisce e infine contravviene, si esercita sulla malìa che il deserto suscita, nell’ampiezza nella sua illeggibilità. Ma se il capolavoro di Buzzati si costruisce nel tragico eroismo dell’indugio di una rovinosa invasione che giustificherebbe la “fuga del tempo”, George e Margaret attendono al più un bambino sperduto, fuoriscena, inverato solo dalle parole che lo descrivono e che si cela dietro un groviglio di sterpi, vittima sacrificale più che mostro. È proprio questo incidente a trasformare la farsa in tragedia.
Margaret nell’apatia di un ‘non-coinvolgimento’, s’adegua al pensiero del marito che, amato, dice di amarla: su di lui s’adagia ogni suo desiderio e tutto sembra, nel metodico indottrinamento di George, un esemplare ed enfatico agire – sottolineato in principio da una recitazione artificiosa – per il bene comune, per il bene anche di lei.
Se George passa le giornate con il fucile lustrato e carico, il binocolo intento, in una caccia alle streghe metodica e aleatoria, ad attendere quel nemico che serve a mascherare il vero male in lui, un nemico che si fa allegoria del proprio lato oscuro e che lo giustifica, Margaret non perde, ogni volta che si trova sola, l’occasione di cantare e ballare imitando Julie Andrews, emblema della spensierata gioia di vivere e della volontà che autodetermina la felicità. Laura Marinoni è incantevole mentre danza e canta e, spontaneamente, questa sua grazia stride con la durezza dei modi di Fabrizio Falco.
Il cortocircuito coglie di sorpresa quando Margaret si oppone alla volontà di omicidio del marito il quale già in precedenza, in una scena di sesso dura e che non lasciava nulla da immaginare, aveva però rivelato la propria misoginia, la disempatia, l’incapacità di cogliere l’emozione altrui.
Evitando di svelare gli ultimi momenti di quella che appare un’amara commedia e che si palesa invece essere una tragedia annunciata, è inevitabile, però, cercare di leggere il messaggio, antiretorico, pacifista e forse divinatorio di Juan Carlos Rubio, che, scrivendo questa sceneggiatura ormai alcuni anni fa, aveva prontamente intuito quale sarebbe stata la deriva degli Stati Uniti. Deriva concretizzata nel reticolato che protegge, come un Vallo di Adriano e senza la sua valenza civile e storica, la frontiera con il Messico.
“Siamo qui per fare la storia” afferma subito George, imitato senza convinzione da Margaret, occupando il territorio assegnato e sottolineando quanto l’indottrinamento sia in grado di trasformare un sacrificio pallido e inutile nella sensazione di avere un ruolo sociale. Un’ansia di protagonismo che Margaret però svela essere vana quando, rimpiangendo il Wyoming, terra, ora divenuta miraggio incantato, dalla quale lei e il marito provenivano, si domanda perché il suo vicino non possa essere semplicemente l’amico al di là della strada, dietro l’angolo della propria villetta, senza un nemico collettivo ma solo con un comune desiderio di bene e di normalità.
La capacità di Laura Marinoni, evidente in questo spettacolo, di scomparire dietro il personaggio interpretato, ha giustificato il premio tributatole e consegnato dopo la prima di Arizona al Teatro Elfo di Milano dai Critici di Teatro. Premio accolto, tra gli applausi sentiti del pubblico che riempiva la Sala Fassbinder, con evidente partecipazione, nel ricordo emozionato della madre da poco scomparsa.
ARIZONA
Una tragedia musicale americana
di Juan Carlos Rubio
traduzione Giorgia Maria D’Isa in collaborazione con Pino Tierno
regia Fabrizio Falco
scene e costumi di Eleonora Rossi
musiche e suono Angelo Vitaliano
luci Vincenzo Bonaffini
con Laura Marinoni e Fabrizio Falco
assistente alla regia Maurizio Spicuzza
produzione Emilia Romagna Teatro Fondazione