C’è una luce di lutto, abbagliante nel suo disperato irradiarsi verso la parola e lo strazio. Una parola che inizia con la morte, perché, davanti alla morte, certe cose devono essere dette, ripercorse, scolpite nel sempre effimero della vita mutilata che resta. E Nardino, cui tocca il compito penoso di salutare per l’ultima volta Emanuele, il compagno di trent’anni di vita segnata da un amore inestinguibile e segreto – placa il debito con la sua memoria e con la sua rabbia d’abbandonato, rievocando l’amante attraverso un folgorante e doloroso flashback. “Le mille bolle blu” l’intensissimo monologo tratto dal racconto omonimo di Salvatore Rizzo e che Palco Off, la rassegna di Francesca Vitale ha accolto in uno straboccante Must Musco Teatro a Catania, affronta, annullando luoghi comuni e abolendo ogni fronzolo pietistico, il mondo degli uomini che amano altri uomini.
Di più: l’amore che supera ogni pregiudizio, sorpassa insignificanti questioni di sesso e di diversità sociale (l’uno barbiere, avvocato l’altro) per affermarsi come unico e irripetibile, eppure sotterraneo e invisibile. Sulla scena il solo Filippo Luna – che ha pure curato la regia – ripercorre l’amore “omosessuale” tra Nardino, barbiere figlio di barbiere, e l’avvocato Manue’ – una storia nata all’inizio degli anni Sessanta (in cui la vicenda è ambientata) sulle note di quelle “mille bolle blu” di Mina che i due “sentono dentro le vene” – a fare da sottofondo, insieme ad altri successi dell’epoca. Proprio davanti al “cenere muto” di Emanuele – bellissimo anche da morto, nonostante la malattia “che se l’è mangiato” – Nardino scandisce le tappe di una passione incontenibile (e inconcepibile per gli “altri”): l’incontro, il contatto, l’inimmaginabile coinvolgimento, l’innamoramento inatteso, la passione del cuore e dei corpi, la gelosia e le nevrosi di una coppia normale, la scoperta di un “altrove” intimissimo e celato insieme allo sforzo per coprire, attraverso la facciata normalizzatrice di moglie e figli, un amore “troppo bello e troppo pesante”. E il contraltare della parlata sulla scena è anche quello della narrazione: se l’italiano diventa l’espressione della ragione, il dialetto palermitano rivela invece quella viscerale dell’istinto e della carne, dell’affetto e della condivisione. A dominare la scena – su cui campeggia una felice foto in bianco e nero, complice di una giovinezza dai garretti ormai recisi – una vecchia sedia da barbiere, che per tutti i cinquanta brucianti minuti dello spettacolo diventa l’altare su cui Nardino celebra Manue’ ma che si trasforma, nel corso straziante del rimpianto, ora in alcova, ora in confessionale, in camera di risonanza e delle meraviglie di un lontanissimo mondo di borgata, lì dove oggi esistono solo parrucchieri da uomo: Totò Rizzo appartiene ad una generazione che conosce benissimo gli universi che quei luoghi sapevano squadernare e ce li restituisce senza i facili sentimentalismi di una operazione puramente vintage, raccogliendola proprio da una storia vera (contenuta nel volume “Muore lentamente chi evita una passione”) e resa con una discrezione, con una delicatezza rabbiosa e tenera ad un tempo, grazie alla forza di una scrittura ad un altissimo grado di fascinazione.
Tra sfumature, lozioni e gli stralci di una vita vissuta visceralmente l’uno all’ombra dell’altro, Filippo Luna – una interpretazione letteralmente magistrale, e per tutti gli undici anni di repliche – esplora con inesausta energia gli abissi dell’amore, tutte le sfumature della disperazione, delle insicurezze, della passione e del desiderio. E i suoi movimenti sulla scena, costituiscono il sonoro gestuale di una scrittura calda e corposa, violenta e sincera, insieme allo strazio terribile di un’assenza della quale resta, accanto alla traccia di un profumo e di un mazzo di fiori, solo il tanfo terribile della morte e di una solitudine irreparabile. Si replica stasera ore 18.