Il “nostos” della parabola umana si è compiuto per Omero Antonutti nella sua friulana terra nativa e – ci piace immaginare- secondo i suoi desideri di uomo senza fronzoli. Schivo laconico, serio ma non serioso, era spesso (tenuamente) lambito da distaccato e deluso sorriso: quercia austera, ancestrale, “epica” e densa di ritegno (“nomen omen”), che non amava attardarsi in mondanità e autopromozioni, coltivando semmai un’idea tutta propria (un affare scabro e privato) del mestiere d’attore. Sempre di prima grandezza e nessuna insofferenza per notorietà e conventicole di ‘appartenenza’.
Pur se lunghissimo fu per lui il sodalizio coi Fratelli Taviani, che lo vollero magistrale, “arcigno” protagonista di «Padre Padrone» (premiato a Cannes, con la Palma d’oro, nel 1977) e poi rimasto a loro legato quasi come attore-feticcio lungo il corso di una fervida, non pianeggiante carriera che, attraversando gli anni ottanta, va da «La notte di San Lorenzo» (epico e corale) a «Kaos» (ovvero, le scaturigini isolane dell’arte e dei drammi pirandelliani), da «Good morning Babilonia» (molto bistrattato da alcuni critici: ingiustamente) al più recente «Tu ridi» (che invece venne molto acclamato)
“Friulano tutto d’un pezzo, adottato dalla mitteleuropea Trieste ancora giovanissimo e poi cittadino romano per molti anni” (si legge in una scheda biografica) Antonutti è stato è stato un raro esempio di interprete affidabile, multiforme, riservatissimo sul versante della propria vita privata, peraltro “viaggiatore della cultura e maestro modellatore della voce” nelle mille sfumature delle lingue adottate – specie nella lunga carriera di doppiatore.
Poliglotta e giramondo, Omero Antonutti recitava con naturalezza nel greco di «Alessandro il Grande» per Theo Angelopulos (premiato a Venezia nel 1980), in spagnolo per Victor Erice, Carlos Saura e Miguel Littin, in tedesco per Willi Herman. Mentre l’autocontrollo e la fermezza del viso facevano da contrasto alle sfumature (morbide o possenti) delle sue tonalità- vocalmente assimilabili a quelle del baritono e del basso.
Negli anni aveva, poi, ritrovato il piacere di affabulare nelle sue lingue natali, il Friulano e Giuliano, che sempre più spesso portava in palcoscenico per vere gemme di reading imbastite sulla polisemica ‘sensorialità’ dei suoi autori più amati (da Magris a Pasolini). Un modo raffinato e defilato di evocare e prolungare le lontane esperienze di grande comprimario teatrale.
Debuttante- dopo una la prima giovinezza trascorsa da operaio ai cantieri navali di Trieste- allo Stabile di Genova, ove rimase dal 1962 al 1976, diretto e benvoluto da Luigi Squarzina, con i classici di ‘formazione’ (I gemelli veneziani di Goldoni, Il fu Mattia Pascal e Questa sera si recita a soggetto di Pirandello) e i prediletti testi di impegno civile (Rosa Luxemburg su tutti). Personalmente – giusto per carezzare le nostre ‘meglio gioventù- continuo a ricordarlo compatto, assoluto protagonista della ibseniana Anitra selvatica, che Luca Ronconi allestì (magistralmente) nel 1977, e rimase in cartellone per tre stagioni. Altri tempi, altri luoghi come è giusto che sia….