La donna leopardo, o della ricerca di un’autenticità sfuggente

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Michela Cescon, attrice che esordì giovanissima sotto la guida di Ronconi e volto familiare per i suoi ruoli cinematografici e televisivi, con questo debutto assoluto si dedica alla regia e dichiara di aver tanto atteso di poter mettere in scena questo testo, nato seguendo le tracce dell’ultimo romanzo di Alberto Moravia, il cui manoscritto fu rinvenuto all’indomani della morte dell’autore sulla sua scrivania, pronto per essere dettato alla sua dattilografa e pubblicato postumo nel 1991. Si tratta della prima regia teatrale di Michela Cescon, che s’inserisce nell’affermata tendenza minimalista che predilige la sobrietà in scena, lo spostamento di pochi elementi mobili effettuato dagli stessi attori su palco e la duttilità di grandi elementi geometrici che, con luci diverse e piccoli cambiamenti di prospettiva, stanno a rappresentare ambientazioni anche diversissime tra di loro, come in questo caso Roma e il Gabon.

Protagonisti della vicenda sono Lorenzo, brillante giornalista che ama la vita e Nora, una donna volitiva, d’umore cangiante, a volte altera e a volte ammiccante, che sembra voler lasciare il compagno sempre sulla graticola, a ribadire la sua autonomia di donna forte e piacente che non vuol rendere conto a nessuno delle sue scelte, anche sentimentali. Lorenzo deve partire per l’Africa, un po’ per lavoro e un po’ per vacanza, e insiste perché Nora parta con lui, e con il più maturo Colli, proprietario del giornale nonché coinvolto in affari edilizi in Gabon. Colli è attratto da Nora, la quale non disdegna la sua compagnia, risvegliando la gelosia di Ada, la moglie di Colli, che a sua volta sembra invitare Lorenzo a rendere pan per pariglia e a lasciarsi sedurre, non foss’altro che per vendetta.

Gli attori sono trattenuti, volutamente freddi, ad eccezion fatta per qualche momento ironico di Lorenzo, che in un paio di passaggi ammicca al pubblico e pare l’unico personaggio con cui sia consentito identificarsi. All’inizio sembra sicuro e quasi curioso di percepire i tentativi di seduzione del suo editore nei confronti di Nora, ma a Roma, con il contorno di convenzioni sociali, tutto sembra più contenuto, più noto nei meccanismi di gioco quasi lusinghiero dove la donna desiderata appartiene però ad un altro… Una volta in Africa, però, fuori dal terreno conosciuto e a contatto con la natura nella sua massima espressione, al contatto con aspetti più istintuali, liberi da artifici sociali, Nora e Colli si avvicinano di più, passano molto tempo da soli, e Lorenzo non riesce a non chiederne conto alla moglie, stizzita ma forse anche inorgoglita dalla gelosia del marito. Gelosia che qui sembra una debolezza imperdonabile, un’ammissione di sfiducia, un desiderio di possesso assoluto e di certezza totale che si rivela immediatamente incompatibile con una concezione moderna dell’amore e della libertà femminile.

La freddezza con cui gli attori recitano sembra una difesa dalle pene d’amore, dal continuo ridefinirsi dei rapporti umani, quasi come se fosse necessario anestetizzarsi per non apparire primitivi davanti alla follia momentanea in cui l’eros ci cala, alla furia del desiderio che non conosce vincoli sociali. Allora, assistendo a ciò che accadrà, improvvisamente si apre uno squarcio attraverso il quale si passa dal potere che dobbiamo ammettere di non avere sull’Altro al potere dei rapporti economici che governano il mondo. Qui sta forse la riflessione più originale dell’opera, quando il giornalista Lorenzo, mentre dubita del suo potere di uomo, decide che anche come giornalista gli toccherebbe non schierarsi, non scrivere reportage dall’Africa dove notoriamente il suo editore Colli sta portando avanti affari e costruendo strade in accordo con il governo locale: che ne sarebbe della sua neutralità di osservatore? Ma Colli, offrendogli ambiguamente un aumento di stipendio, gli fa capire che anche se scrivesse articoli critici sugli interventi edilizi del suo stesso editore in Africa, non farebbe che aumentare la fiducia nel sistema e nell’indipendenza dell’informazione: faccia pure, dunque; non lo danneggerebbe, anzi, farebbe di Colli un uomo d’affari rispettoso della libertà d’opinione dei suoi giornali. Una trappola. Un po’ come il ribaltamento che a un certo punto sembra fare di Lorenzo e di Ada i veri traditori, che flirtano… Ma si tratta ancora di ragionamenti, di calcoli, mentre la forza dell’istinto, che si sprigiona durante un’immersione marina liberatoria (la parte più vitale dello spettacolo), è quella che sfugge enigmaticamente a tutto quel che possiamo prevedere, è quella che fa paura, inafferrabile e inaffidabile come l’Africa nera. La “donna leopardo” è quella parte, affascinante ma mai conquistata una volta per tutte, che incarna il nocciolo duro dell’amore, che per essere autenticamente tale deve restare indomabile e impenetrabile, sfuggente. Lo spettacolo, ricco di suoni primordiali ma così scabro nelle scene e nell’interpretazione attorale, fa forse appello ad una nostra Africa interiore, all’accettazione di un’alterità radicale che disinnescherebbe le nostre certezze, ma che forse non è così presente nel pubblico di oggi come poteva essere invece in Alberto Moravia. Si lascia la platea con una voglia di autenticità inappagata di cui bisogna essere grati.

La donna leopardo al Piccolo Teatro Grassi dal 29 ottobre al 3 novembre

(e poi in tour a Tortona, Pinerolo, Asti, Lodi, Torino e Padova. In febbraio e Marzo 2020 sarà in scena a Pavullo, Venezia, Catania)
tratto dal romanzo di Alberto Moravia
adattamento drammaturgico Michela Cescon e Lorenzo Pavolini
regia Michela Cescon
musiche Andrea Farri
con: Valentina Banci, Olivia Magnani, Daniele Natali, Paolo Sassanelli
produzione: Teatro di Dioniso e Teatro Stabile del Veneto


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