Chiama in causa anche le responsabilità dell’informazione l’istituzione della Commissione voluta dal Senato per “contrastare i fenomeni di intolleranza e razzismo, antisemitismo e istigazione all’odio e alla violenza”, con le conseguenti polemiche della destra che ha deciso di astenersi. Polemiche che riportano alla luce quella malintesa idea di par condicio che in questi anni si è diffusa anche nella stampa, in radio e in tv, secondo la quale il rispetto dei valori costituzionali di non discriminazione è quello caro ai “buonisti”, che sono una parte; poi c’è un’altra parte del Paese che la pensa diversamente, e non vorrete mica negarle il diritto di esprimersi? Perché dovete imbavagliarmi, se voglio continuare a chiamare ‘clandestino’ chi giuridicamente andrebbe definito – ci ricorda la Carta di Roma – come ‘rifugiato’ o ‘richiedente asilo’? Perché volete censurarmi, se decido di dare grande risalto giornalistico solo agli stupri commessi dagli immigrati, mentre nascondo in quindicesima pagina lo stesso orribile reato quando a macchiarsene è un italiano? E perché non posso parlare di ‘invasione’ dall’Africa, anche se i numeri non giustificherebbero un linguaggio apocalittico?
E’ anche per questa confusione sul ruolo della “libera” informazione che oggi siamo – tocca ricordare ancora una volta gli studi convergenti che lo attestano – il Paese occidentale nel quale massimo è il divario tra i dati reali di alcuni fenomeni e la percezione che ne ha la famosa “gente”. Esempio tipico, dalle disastrose conseguenze sociali, lo scarto tra la presenza reale di immigrati (7% della popolazione italiana) e la presenza ‘percepita’ (il 25%, ben tre volte e mezzo di più).
Del resto la Commissione Segre non arriva come un fulmine a ciel sereno. Nel gennaio scorso il Consiglio d’Europa – in un rapporto totalmente ignorato qui da noi – aveva sentito il bisogno di evidenziare come “la società italiana abbia registrato una crescita delle attitudini razziste, della xenofobia e dell’anti-Gypsism nel discorso pubblico, specialmente nei media e su internet”. E pochi mesi dopo è stata l’Agcom, l’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni – altra organizzazione “buonista-stalinista” – a deliberare con preoccupazione un “Regolamento in materia di rispetto della dignità umana e del principio di non discriminazione e di contrasto all’hate speech”, rivolto a radio e tv ed anche, per la prima volta, a “piattaforme per la condivisione di video”.
L’articolo 21 della Costituzione e il rispetto della par condicio sono pilastri dell’informazione, ma non vanno invocati a sproposito. Né possono servire come scusa per mettere tra parentesi quell’altro pilastro della professione giornalistica che è – articolo 2 della legge istitutiva dell’Ordine – il “rispetto della verità sostanziale dei fatti”. La ministra dell’Interno Lamorgese ha fornito cifre sugli arrivi dei migranti molto diverse da quelle del suo predecessore Salvini, che a sua volta ha polemizzato fornendo altri dati. Noi giornalisti possiamo limitarci a mettere il microfono davanti all’una o (assai più frequentemente) all’altro, o avremmo – anche e soprattutto – il compito di garantire a chi ci guarda o legge un calcolo “terzo”? E ancora, per stare all’ambito informativo più strettamente televisivo: è serio per i tg continuare a “raccogliere dichiarazioni”, cioè pillole di propaganda politica recitate con maggiore o minore disinvoltura, senza che mai ci sia una domanda che dia a quelle parole la dignità di un’intervista?
La Carta di Assisi, varata un anno fa proprio nella consapevolezza di un’allarmante diffusione dei discorsi di odio, ci ricorda tra l’altro che chi fa informazione deve “imparare il bene di dare i numeri giusti”. Certo, a far alzare la marea dell’hate speech non ci siamo soltanto o principalmente noi giornalisti. Ma questo non è un buon motivo per chiudere gli occhi sulla nostra ‘responsabilità sociale’, su quello che possiamo fare per rendere meno inquinato l’ambiente della comunicazione e contribuire almeno a socchiudere quelle ‘camere dell’eco’ che prosperano in rete e fanno da megafoni all’odio. Proprio sulla Carta di Assisi puntiamo ad avviare corsi di formazione in tutte le Regioni, ovunque in accordo con l’Ordine dei giornalisti. Sarà il nostro specifico modo, professionalmente caratterizzato, per far sentire alla senatrice Segre che ci siamo accorti anche noi di quel numero che le è rimasto tatuato sulla pelle.