L’ambientalismo si proclama bene, ma quando si deve mettere mano al portafoglio, arrivano puntuali i ripensamenti.
Questo vale per la plastica, ma è ancor più evidente per l’Ilva. Dove costose bonifiche dell’impianto sono state previste, ma mai attuate, con l’unica strategia di governi e proprietà di tirare a campare. Anzi a morire, perché l’impianto così com’è genera tumori. A questo serviva lo “scudo penale”: rendere immuni i responsabili di queste morti dalle conseguenze penali, nonostante una palese violazione della Costituzione, che presto sarebbe arrivata al vaglio della Suprema Corte.
Con la dichiarazione di recesso di Arcelor-Mittal il quadro è drammatico, ma più chiaro: o escono i soldi (tanti) per la bonifica dell’impianto con un piano industriale che tenga insieme controllo delle emissioni ed equilibrio gestionale; o si chiude, con una mega-piano di rioccupazione-cassa integrazione degli ex-operai, per evitare una bomba sociale. In entrambe le ipotesi ci vuole visione e coraggioso sprezzo del consenso a breve, due qualità che una modesta classe politica non ha. La terza via, la peggiore, è la “sindrome Alitalia”. Ovvero stabilizzare anche l’Ilva in un coma di perdite e buttare sui contribuenti i relativi costi, tenendo buona l’opinione pubblica con la favola del “prestito ponte”.
Il sonno della politica industriale nazionale genera mostri.
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