La visione “distorta” di Maresco, quella non allineata ai dettami costituzional-visivi, colpisce e colpisce di brutto. Questo suo ultimo film, che sembra essere davvero quello definitivo, destabilizza (ri)stabilendo lo stato delle cose. Lo sguardo di Maresco, mai così vicino cinematograficamente alla sua Cinico Tv, usa la macchina cinema, in una sorta di “Otto e mezzo” ancora più radicale di quello di Fellini, per muoversi tra facce brutalmente arcaiche e per questo tanto amate, e panorami da Stato inesistente, e, soprattutto, da comunità assente, senza neanche quella speranza che gli ontologici film di John Ford regalavano.
Rispunta Sciascia con i suoi due Stati contrapposti, quello legittimo e inesistente e quello illegittimo e crudele, creatosi spaventosamente per necessità di sopravvivenza. Il cineasta palermitano segue, accompagnato dalla voce e dal volto “in contrasto” della grande fotografa siciliana Letizia Battaglia, le manifestazioni per i 25 anni delle stragi di via D’Amelio e Capaci. Muove la cinepresa tra balli di giovani studenti che manifestano in pieno centro storico, lontani dalla periferia e dai suoi abitanti, che non riescono e, soprattutto, non possono capire perché la mafia sia contro, visto che di mafia essi sono nati, si sono nutriti e continuano, purtroppo, a doversi nutrire. Loro non partecipano perché sono la mafia, il suo prodotto, la sua tragica risultante, di cui mai nessuno si è fatto carico.
E’ l’impresario dei neo-melodici Ciccio Mira, già protagonista del precedente ”Belluscone-Una storia siciliana”, il Virgilio che accompagna il “Dante” Maresco in questo girone infernale fatto di prevaricazioni e offese, e per questo naturale generatore di pietas e risate spiazzanti e “folli”. Chiamato non si sa da chi e perché (la mafia ha vinto e scherza con i vinti?) ad organizzare in pieno Zen 2 una festa di piazza in memoria di Falcone e Borsellino, Ciccio Mira, tra paure ed omissioni obbligate, fa sfilare su un palcoscenico da brividi un’umanità privata della sua stessa dignità, abbandonata ai peggiori miti televisivi e neocapitalistici, che pongono Maresco come l’unico e degno erede di Pasolini, e, per dirla con Goffredo Fofi, ne fanno l’autore più radicale del cinema italiano degli ultimi 30 anni.
L’alternarsi non casuale di bianco e nero e colore, a sottolineare quanto di vero e di falso ci circonda, l’uso esplicitato del mockumentary, il continuo inseguirsi di realtà e finzione, che alla fine diventano inevitabilmente la stessa cosa, perché tali sono, aiutano Maresco a sfidare tutti, spettatori, storici, istituzioni (anche la massima del nostro paese), alla ricerca di una verità salvifica che egli stesso sa essere oramai introvabile. E’ consapevole di poterci “soltanto” regalare momenti di lucidità estrema, capaci di farci intuire il tramonto della stessa umanità, dentro e fuori i limiti in cui la grande narrazione storica l’ha relegata. La Palermo di Maresco è solo quella periferica, come la Roma dell’“Accattone” pasoliniano.
Niente modernità né archeologia di cui vantarsi, solo l’estrema periferia è presente, vitalistica e funerea insieme, come unico set naturale da cui far scaturire realtà possibili. I brutti, sporchi e cattivi pagano il conto di un pranzo al cui banchetto hanno seduto e siedono i belli, puliti e buoni, capaci in virtù della loro forza originaria e primigenia (direbbe Marx) di farla ancora franca. Ma il finale del film, con quella carrellata in allontanamento da una piazza vuota e da un palco dove gigioneggia solitario Ciccio Quattrocchi da Palermo, sulle note di un parodiato inno nazionale, con sullo sfondo la bandiera repubblicana, la dice lunga non solo sul nostro paese ma sull’Occidente tutto e sulla sua prossima sorte…