In tempi normali, i populisti restano ai margini della società, ne rappresentano solamente una piccola parte. Ma in presenza di gravi crisi o traumi collettivi, come una guerra o una depressione economica, questi gruppi minoritari possono trasformarsi in movimenti di massa e diventare la maggioranza. È quanto accaduto negli anni Trenta in Europa in seguito alla crisi del ’29, o negli Stati Uniti degli anni Cinquanta. Ed è ciò che è accaduto in Italia nel marzo 2018.
Il punto centrale è l’ingiustizia economica, la sproporzione tra i sacrifici chiesti alla classe media e a quella medio-bassa, mentre i ricchi diventano sempre più ricchi e i super ricchi ingrassano persino di più.
È questa la tesi esposta da Alan Friedman in Questa non è l’Italia, edito a settembre 2019 da Newton Compton Editori. Una visione condivisibile in toto che accenna ai motivi propulsori dei movimenti populisti e sovranisti che acquistano sempre maggiore consenso in Italia, in Europa e in genere nei paesi occidentali.
Il saggio si apre al lettore così con una notevole introduzione al fenomeno di stretta attualità e con lucide considerazioni sul come queste insoddisfazioni della classe medio e medio-bassa vengano intercettate da “astuti demagoghi” che le trasformano in slogan e promesse elettorali.
Friedman riporta nel testo una accurata cronistoria di quanto accaduto nel tempo in Africa, Medio oriente e Europa. Le decisioni e gli accordi che hanno portato direttamente Stati e popoli alla situazione attuale, a crearla o subirla. Politiche sui migranti anche apparentemente distanti tra loro, nel tempo e nello spazio, oppure simili ma che hanno generato conseguenze diverse.
Leggi, decreti, accordi, trattati, muri, barriere, campi che sono prigioni, diritti che diventano privilegi, doveri che divengono slogan, propaganda spacciata per speranza, persone che diventano numeri o peggio merce di scambio, finanziamenti che sono ricompense e un’umanità intera che mostra da un lato e subisce dall’altro il suo volto peggiore.
La seconda parte del libro, molto più corposa della prima, si rivela un po’ meno interessante e un po’ troppo pedante, laddove l’autore si limita a elencare e commentare, o meglio criticare acerbamente, una lunga serie di fatti e accadimenti noti.
Principalmente si concentra su Steve Bannon, Matteo Salvini, Donald Trump, Luigi di Maio, Beppe Grillo e la Casaleggio Associati. Persone che Friedman non stima molto, per usare un eufemismo, contrariamente a Mario Draghi, Jean-Claude Juncker e Dominique Strauss-Kahn per i quali invece l’autore prova molta ammirazione.
Dominique Strauss-Kahn. Proprio lui. Ma Friedman ne parla in maniera positiva dal punto di vista professionale, affermando che fosse da sempre noto a tutti la sua ossessione per le donne ma che questa è un’altra storia. Non c’entra.
La visione politica ed economica dell’autore è ben nota e viene più volte rimarcata dallo stesso nel testo, anche con commenti e giudizi un po’ troppo offensivi, almeno nell’ottica di chi scrive. In Questa non è l’Italia vi sono numerosi passaggi che ricordano troppo il linguaggio e i metodi utilizzati da chi viene ripetutamente redarguito dallo stesso autore proprio per queste volgarità. Linguaggio volgare e incitazione all’odio sono le accuse sovente rivolte ai demagoghi populisti da Friedman. Se combatti la violenza con la violenza ne risulterà solo altra violenza. Se combatti la volgarità con la volgarità, il risultato sarà solo altra volgarità.
“Abbassarsi” al livello di chi si critica proprio per il suo linguaggio volgare, per i suoi modi rozzi, per l’incitamento all’odio, in generale non è mai una scelta felice. Il caso particolare non fa eccezione.
Per fare un esempio: definire “sciroccati” esponenti di forze politiche democraticamente eletti non in linea con il proprio pensiero non è molto edificante. Legittimo non condividere idee e progetti. Altra cosa è lasciarsi andare a queste derive di stile.
«(Salvini, ndr.) non può contare su Farage. Né su Orbán. E neanche sulla Polonia. Solo su Le Pen, una manciata di estremisti dell’Europa dell’Est e sciroccati vari.»
Decisamente più gradite al lettore le parti in cui l’autore compie un’accurata critica basata sui fatti, i contenuti, le azioni concrete, sulla confutazione di tesi con dati e prove attendibili.
Friedman si sofferma molto nel raccontare, in particolare, la storia di Bannon e quella di Salvini con l’intento, sopratutto per il primo, di dimostrare l’evanescenza del potere che ostenta ma che, a conti fatti, non ha. Nessuna obiezione al riguardo. Soltanto che il nocciolo del problema non può di certo essere questo. Si può anche dimostrare con certezza assoluta che Bannon, Salvini, tutti i leader populisti e quelli di partiti estremisti non abbiano in realtà alcun potere ma ciò non rappresenterebbe di certo una soluzione.
Bannon, Salvini e via discorrendo sono degli attori del particolare momento storico in atto, sono intercambiabili e sostituibili in qualunque momento. Il punto è semmai capire perché costoro acquisiscono sempre maggiore consenso. Studiare le dinamiche che hanno portato e portano le persone, i cittadini, gli elettori a manifestare sempre più apertamente e con convinzione interesse e appoggio verso questi movimenti politici.
Ed è esattamente per questo che la prima parte del testo di Friedman risulta molto più interessante della seconda.