Come crediamo di avere già scritto (e adesso ribadire), Giuseppe Battiston, da attore e da teatrante di perseveranza e ingegno, abita le zone più inusitate -e apicali- del nostro teatro e del nostro cinema, spesso “disputando” contro il peso di gravità la sua personale, bizzarra apoteosi della squisitezza – e leggerezza- dell’essere, ben oltre e ben prima della (sua) massa corporea.
Avviandosi, ora, a replicare il successo della scorsa stagione con il pregnante monologo ispirato ai “pensieri” post bellici di Winston Churchill, l’interprete friulano inaugura la fitta stagione dell’Ambra Jovinelli con un altro personaggio, e fenomenologia umana, estremi e “razionalmente caotici” in cui potersi (fisiognomicamente) mimetizzare, per poi sceverare ed auto esaltarsi senza nulla concedere al compiacimento. Unendo cioè al virtuosismo (istrionico) di “essere” Orson Welles quello di sapersene distaccare, per “osservarlo” e, se serve, biasimarlo, quando l’evolversi della confessione in pubblico lascia riaffiorare amarezze, rimpianti, ciclici fallimenti. Affrontati tuttavia con dignità, ironia e conflittuali sentimenti di riluttanza e autostima.
Puntualizza il programma di sala: come sarebbe, oggi, un breve incontro con Orson Welles, se potesse, solo per un’ora, tornare a stare tra noi? Ci svelerebbe qualche segreto della sua genialità (“inspiegabile” per definizione) o passerebbe tutto il tempo a raccontare aneddoti esilaranti?
“Scaglierebbe, indignato, invettive contro i nemici di allora e gli orrendi tempi moderni o ne sorriderebbe sornione?” . Godibile e sintetico per la sua dichiarata essenzialità di svelarsi quale prova d’attore esplicita e carnale, “Orson Welles Roast” (titolo preso in prestito da una celebre serie di “faccia a faccia” televisivi, anni settanta, curata da Dean Martin) è, a suo modo, un “entracte” senza rete e senza filtri, immune dalla (diffusa) pretesa di scavalcare i canoni di una performance ad alta gradazione di artigianato interpretativo (a tratti affannato e col cuore in gola, nella sua umana schiettezza). Qui incrementata, grazie a Battiston, dal un tangibile e irresistibile valore didascalico\divulgativo (non celebrativo, men che mai commemorativo) indirizzato alle generazioni che del vulcanico “artefice” statunitense conoscono a stento il nome.
Di fatto, l’attore entra in scena indossando (svogliatamente) un accappatoio bianco, inebriandosi di un sigaro cubano perennemente in bocca ed “esprimendosi in buon italiano dall’accento americano” (non per vezzo ma per naturalismo scenico). Di seguito, l’ epopea esistenziale di Welles diventa un fiume (in piena) di ricordi, rincrescimenti, ‘incidenti o accidenti’ di vita che si mescolano alle riflessioni sul modo come cucinare bene, quindi soddisfare i sempre coltivati piaceri della gola e del buon bere (i quali e ovviamente si fanno “gusto, sapore, cultura” cui affezionarsi).
Impreziosendosi di una ambientazione che è una meta-teatrale via di mezzo fra un praticabile e l’angolo di un set cinematografico in disuso. Tutto polarizzato dal comportamento di Welles/Battiston che ama rivolgersi direttamente al pubblico, ammiccando all’empatia, all’umana complicità; quindi apostrofare, e a più riprese, il datore luci per accendere o spegnere faretti e ‘cannoncini’. Molto sapido: non fa una grinza.
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Orson Welles Roast
scritto da Giuseppe Battiston, Michele De Vita Conti. Musica originale di Riccardo Sala
Regia Michele De Vita Conti. Teatro Ambra Jovinelli di Roma sino al 10 novembre (poi, in tournée)