A cinquant’anni dalla morte di Theodor W. Adorno, un ricordo di un non-incontro fra Goffredo Fofi e il celebre filosofo della Scuola di Francoforte, nonché musicista. Una storia che si interseca con le lotte operaie di Fiat Mirafiori e della Volkswagen a Wolfsburg, l’esperienza di Agape, i Quaderni rossi e la Lega tedesca degli studenti socialisti di Rudi Dutschke.
Cinquant’anni fa è morto Adorno, il grande filosofo tedesco della Scuola di Francoforte. Tanti anni fa, nei primi Sessanta, stavo per conoscere, in circostanze insolite, ma ebbi contro il destino e il rigido inverno tedesco. Quando a Torino facevo marginalmente parte del gruppo dei Quaderni rossi, che non facevano altro che parlare di fabbrica e classe operaia, e conoscendo tanti operai per via del volantinaggio che facevo alla porta 5 di Mirafiori tante mattine all’alba insieme a Vittorio Rieser, e avendo letto La condizione operaia della Weil, mi misi in mente di dover fare anch’io un’esperienza di lavoro di fabbrica. Ma a Torino non era proprio possibile, essendo io schedato dai servizi Fiat per le cose che andavo scrivendo sul modo in cui la città (la Fiat) considerava e trattava gli immigrati dal sud. (La Fiat aveva chiesto alla questura che mi fosse dato un foglio di via, e se riuscii a evitarlo fu grazie a un escamotage legale suggerito da Giorgio Agosti, gran persona e ex capo partigiano nonché ex questore della Liberazione a Torino, e più tardi tra i fondatori e animatori del Centro Gobetti in cui lavoravo).
In quel periodo frequentavo molto la comunità valdese di Agape (che ospitò diversi seminari dei Quaderni rossi) e mi ero molto legato a Tullio e a Fernanda Vinay e vi avevo fatto amicizia con un giovane “pastore operaio” (non c’erano solo i preti operai, allora), che lavorava alla Hoechst, la grande fabbrica di medicinali alle porte di Francoforte. Lo seguii in un appassionante giro tedesco, che smontò tante mie prevenzioni su quel popolo generate dall’esperienza infantile dell’occupazione nazista, già avviate dall’amicizia con due coetanei conosciuti in un campo di lavoro, su ad Agape, Wolfgang e Gerhardt. La tappa più importante fu proprio la visita a una fabbrica, quella della Volkswagen a Wolfsburg, dove poco tempo prima c’era stata una rivolta degli operai italiani malamente alloggiati in una sorta di lager (con tanto di filo spinato all’intorno) su cui aveva scritto un reportage impressionante un grande giornalista, Erich Kuby (in Germania provvisoria, edito da Einaudi). Ce la raccontarono, quella rivolta, molti dei protagonisti, dentro una baracca del lager…
Alla Hoechst mi presero provvisoriamente aggregandomi a un gruppo di immigrati spagnoli del turno di notte, addetti a un faticoso carico e scarico delle merci. Ricordo la simpatia e la solidarietà di quelle persone, che erano perlopiù di origine contadina e in gran parte analfabeti, e il freddo polare di quelle notti.
La sorella dell’amico pastore presso cui alloggiavo era una musicista dilettante che faceva parte di un quartetto (o quintetto) di cui faceva parte nientemeno che il grande Adorno. Il piccolo complesso si riuniva ogni domenica in casa del filosofo per suonare insieme, e ognuno di loro poteva invitare come ascoltatori uno o più amici. Adorno disse che avrei potuto andare, anche perché nel frattempo ero stato ospite all’università ai margini del suo corso dei suoi allievi e collaboratori, a raccontare le lotte operaie torinesi del ‘62. Alcuni di loro furono nel ‘68 tra i membri più attivi del Sds (Sozialistische Deutsche Studentenbund, in italiano la Lega tedesca degli studenti socialisti), ed è probabile che fosse presente, chissà, il futuro grande e sfortunato leader Rudi Dutschke. Inoltre la mia presentatrice aveva detto ad Adorno che ero amico di Renato Solmi, curatore dell’edizione italiana dei suoi libri.
Purtroppo il concertino domenicale non ci fu. Il freddo di quell’inverno provocò al povero Adorno una forte influenza, ed egli si scusò molto ma non poteva né suonare né ricevere. Fu così che mancai uno degli incontri che avrei potuto raccontare negli anni con giustificato orgoglio. Gli altri non meno gravi, furono quelli con Totò – per mia colpa – e, a Parigi, con André Breton, per colpa sua che morì un mese prima dell’appuntamento che mi aveva dato per il tramite di Gérard Legrand, membro della redazione di una rivista cinematografica di qualche influenza surrealista, Positif, di cui facevo parte.
Il freddo francofortese mi costrinse a rinunciare, vilmente, all’esperienza appena iniziata, e al freddo si erano uniti i telegrammi di Giovanni Pirelli, che stavo aiutando nella revisione di un libro enorme e faticoso, le Lettere della rivoluzione algerina. Tornai in fretta a Torino, e addio esperienza operaia, non appena cominciata.