Novantaquattro anni di coraggio e meraviglia, di ironia, leggerezza, curiosità intellettuale. Addio ad Antonello Falqui, alla sua idea di servizio pubblico, alla gioia che ci ha saputo regalare negli anni in cui lo spettacolo di Studio Uno accompagnava la grinta e la dilagante voglia di vivere dell’Italia felice del boom che correva verso il futuro con i capelli al vento.
Addio a uno degli ultimi testimoni del capolavoro di Ettore Bernabei che, pur essendo più democristiano della stessa DC, seppe coniugare le rigide esigenze della Guerra fredda con il desiderio di libertà che infrangeva ogni barriera e travolgeva gli ostacoli del conformismo, della prudenza, della sapiente tattica dello scudo crociato dell’epoca di non fare mai il passo più lungo della gamba.
L’Italia di Studio Uno era un paese che non aveva paura qusi di nulla, che voleva crescere, amare, ridere, che aveva trasformato la televisione non solo in un rituale collettivo ma nel simbolo stesso di una passione comune che riusciva, al contempo, a unire e dividere, a far arrabbiare e a riappacificare, come una sorta di maestro Manzi senza requie, un esperimento manzoniano che ricuciva e avvicinava una Nazione in cui, finalmente, il piemontese e il campano, parlando la stessa lingua, potevano capirsi.
Antonello Falqui, al pari di Eros Macchi, Vito Molinari e altri grandi interpreti di quella stagione irripetibile, era un regista in grado non solo di comandare con le parole giuste ma, più che mai, di plasmare la propria creatura, entrando nelle case degli italiani in punta di piedi e assecondandone i gusti che stavano repentinamente cambiando senza mai scadere nel populismo catodico oggi drammaticamente di moda.
Falqui innovò il linguaggio, modificò gradualmente il nostro modo di pensare, comprese la rivoluzione sociale in corso, capì, prima e meglio di altri, le richieste dei giovani e la nascita di un fenomeno, quello giovanile per l’appunto, che non era mai esistito in passato, prendendo per mano i figli del benessere e della speranza e guidandoli in un’avventura di cui tuttora conserviamo con nostalgia l’emozione e il ricordo.
Se ne va un’autentica icona della televisione italiana, uno di quei protagonisti del costume per cui non è retorico affermare che esista un prima e un dopo, non essendoci alcun dubbio sul fatto che Studio Uno sia stata una trasmissione pionieristica, proprio come lo erano state in precedenza Il Musichiere e Canzonissima, e che dopo le Kessler e la Pavone il modo stesso di concepire il varietà sia mutato per sempre.
Ha saputo essere elegante senza mai scadere nella banalità, rivoluzionario senza mai darsi arie o lasciarsi prendere da manie di protagonismo, sincero con il pubblico e con chi ha avuto l’onore di lavorare con lui.
Antonello Falqui incarna il meglio del nostro Paese, del nostro costume, di una RAI di cui era davvero possibile essere orgogliosi. Aveva un’idea gustosa della vita che, purtroppo, non esiste più. Nell’addio, il rimpianto per un patrimonio che scompare senza che nessuno, o quasi, si sforzi di dar vita a nuove forme di pensiero.
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