[intervista a cura di Valeria Brucoli]
Nadia Angelucci è giornalista e scrittrice. Collabora con varie testate fra cui Nev – Notizie evangeliche (agenzia stampa della Federazione delle chiese evangeliche in Italia – Fcei) ed è corrispondente del quotidiano La Diaria di Montevideo.
Con Nova Delphi Libri ha pubblicato, insieme a Gianni Tarquini, I complici. Conversazioni con Horacio Verbitsky (2014), Io e il Che (2017) e la biografia di José Pepe Mujica Il presidente impossibile (2014-2017). Nel 2019 ha pubblicato Adesso posso scegliere. Dittatura, identità e memoria nelle vite di quattro donne sudamericane.
«Chi è quella ragazza con il viso sorridente e determinato di una generazione che è stata decimata?». Adesso posso scegliere prova a dare una risposta a questa domanda, raccontando il punto di vista di quattro figlie, in senso letterale e culturale, di quella cesura chiamata dittatura che ha travolto molti paesi sudamericani negli anni Settanta.
Mariana O. cerca il padre, scomparso quando aveva 3 anni. Mariana Z. deve fare i conti con le bugie dei suoi appropriatori e con la sparizione dei veri genitori. Matilde fino agli anni dell’adolescenza incontra il papà solo in carcere; mentre i 14 anni di Sandra sono testimoni del sequestro del padre, un evento che cambierà la sua vita per sempre. Nadia Angelucci le ha incontrate, ha raccolto le loro storie, accompagnandole nella scoperta della loro identità più profonda attraverso l’esercizio della memoria, in una narrazione che mette al centro la persona, il suo vissuto, l’irripetibilità dei sentimenti e le piccole cose, invece che l’universalità astratta.
Da dove nasce l’idea di tradurre in narrazione letteraria il racconto di uno dei capitoli più dolorosi del Sud America? Quanto c’è di finzione nel racconto degli eventi riportati nel libro?
Questo libro nasce da un incontro. Non un incontro con una persona ma con un mondo intero, quello di chi in America latina lotta per la memoria, la verità e la giustizia. È l’universo degli uomini e delle donne che hanno vissuto in prima persona gli anni oscuri delle dittature – chi c’è ancora e chi non c’è più –, dei loro familiari, dei loro compagni e compagne di militanza. Questa storia, che conoscevo a grandi linee per averla studiata, mi ha investito profondamente quando ho messo piede in America latina e non ha mai smesso di parlarmi.
Negli anni mi sono occupata di tanti temi diversi ma si ripresentava ciclicamente sotto forme diverse. Ad un certo punto mi sono resa conto che avevo accumulato tantissimo materiale, affetti, relazioni. Le storie che ho scelto di raccontare sono quelle che ho definito “luminose” e sono quelle di quattro donne incantevoli e forti che hanno avuto la generosità di affidarmi parti delle loro vite, raccontandomi dettagli che potrebbero sembrare insignificanti ma che ai miei occhi erano preziosi perché restituivano la poesia che c’è nelle vite reali. Da qui è nato il desiderio di narrare e non solo di riferire. Gli eventi raccontati nel libro sono tutti reali, ovviamente c’è una costruzione narrativa sullo “scenario” che accompagna ogni storia.
«Chi scompare non è morto, non ha una tomba. La desaparición è una condizione permanente, che si ripete ogni giorno, che obbliga ogni mattina ad aprire gli occhi per immergersi nella precarietà del non sapere». In che modo questa condizione ricade sulle vite dei figli?
La desaparición forzada, la sparizione forzata, praticata in America latina durante le dittature civico militari degli anni ‘60, ‘70 e ‘80 – e ancora esercitata in alcuni paesi di quel continente – non è un’azione casuale ma una pratica premeditata che ha un impatto traumatico non solo sulla psiche individuale dei membri della famiglia della persona scomparsa, ma sulla società in generale.
Ricade quindi sulle vite dei figli e delle figlie in senso letterale, ma simbolicamente anche sui posteri, su quelli che vengono dopo. Ed è questo, credo, il suo obiettivo più perverso e profondo. Il nucleo centrale di questa pratica è quello di generare incertezza, una sensazione di privazione che non ha fine, un lutto sospeso e rimandato nel tempo, che si trasforma in una ferita che non si sana. Su questo lutto sospeso si innesta il tema dell’impunità, che racchiude non solo l’ignoranza sul destino della persona scomparsa, l’assenza dei resti e l’impossibilità di seppellirli, ma anche la mancanza di verità e giustizia su quanto accaduto. Questo provoca un danno non solo alle famiglie ma, attraverso le generazioni, alla comunità intera compromettendo la psiche collettiva. In questo contesto quindi la ricerca della giustizia e della verità si trasformano in compiti sostanziali che rafforzano la famiglia e la società, dando un senso a ciò che è stato vissuto e contribuendo alla ricostruzione del tessuto sociale.
Spesso la Storia dei grandi eventi offusca quella delle “piccole vite” che l’hanno attraversata. Quanto è importante invece prendere in considerazione punti di vista insoliti e troppo spesso trascurati?
Per me era importante stabilire un incontro e ridare voce alla mia generazione, che è quella che in questo momento sta affrontando la maturità personale e sociale, ed è quindi protagonista anche della vita politica, culturale ed economica dell’America latina. Mi interessava comprendere come si vive dopo esperienze personali e sociali così forti, come ci si ricostruisce sia dal punto di vista personale che sociale, cosa accade dopo aver visto così da vicino il “baratro”. I figli e le figlie delle dittature non erano né vittime né carnefici ma hanno portato sui loro corpi e sulle loro anime i segni di quella storia. Che uomini e donne sono diventati, in che modo quegli avvenimenti hanno segnato le loro vite, che cittadini e cittadine sono? Rispondere a queste domande ci da modo di comprendere come le società si costruiscono e ri-costruiscono, e come si rappresentano.
Protagonista indiscussa di Adesso posso scegliere è Buenos Aires, quella scintillante delle sale cinematografiche, dei caffè, delle librerie e dei teatri, e quella oscura delle periferie polverose. Come si interseca con la vita delle quattro donne che la attraversano?
Buenos Aires è meravigliosa e insopportabile. Una città abbagliante e misera allo stesso tempo. Negli interstizi di questa contraddizione rivela la sua anima più autentica. È in questo conflitto che ho voluto costruire la narrazione di queste storie che si compongono di spiragli e fessure, di rotture e contrapposizioni più che di coerenza ed armonia. Da questo punto di vista era la scenografia ideale, oltre che quella reale.
Nel libro ritorna spesso il motivo della “scelta personale”: quella dei genitori, nei confronti della militanza politica, ma anche quella dei figli di guardare la storia che li ha travolti. Puoi dirci di più al riguardo?
Il racconto di queste scelte dice innanzitutto della trasformazione delle nostre società da una dimensione collettiva delle lotte e delle speranze a un ambito più intimo. Ciononostante i figli, le figlie in questo caso, costruiscono le proprie scelte su una consapevolezza e responsabilità generate da una ricerca della verità che, anche se appare personale e privata, meno politica e idealista rispetto a quella dei genitori, si nutre di una forza in un certo senso universale ed assoluta. E in questa radicalità non sono poi così diversi.