Da sei anni il 2 novembre si celebra la Giornata internazionale per porre fine all’impunità sui crimini contro i giornalisti. Quest’anno, a un mese dall’anniversario dell’atroce assassinio di Jamal Khashoggi, fatto sparire dal consolato saudita a Istanbul, e a due anni dall’omicidio di Daphne Caruana Galizia, fatta saltare in aria a Malta, questa ricorrenza ha un significato e una rilevanza ancor maggiori. Senza dimenticare Jan Cuciak, e tanti altri colleghi uccisi perché raccontavano verità scomode, e i tanti imprigionati ingiustamente. Resta la Turchia il più grande carcere per giornalisti.
Oltre mille i cronisti morti dal 2006 al 2018, 94 quelli uccisi solo l’anno scorso
A sostegno dell’International Day to End Impunity, l’Unesco ha lanciato la campagna #KeepTruthAlive, alla quale aderisce anche Articolo 21, mentre la One Free Press Coalition, guidata dal Time, ha pubblicato l’elenco con i dieci casi più gravi di minacce e di giustizia negata in tutto il mondo.
Insieme, decine di organizzazioni per la libertà di informazione chiedono giustizia e fine dell’impunità per i crimini commessi contro centinaia di colleghi che hanno la sola ‘colpa’ di essere giornalisti.
A cominciare dal caso Khashoggi. Ad oggi, nonostante le mezze ammissioni dell’Arabia Saudita, nessuna risposta è arrivata sul destino dell’editorialista del Washington post. Eppure i risultati di un’inchiesta delle Nazioni Unite e della CIA indicano il coinvolgimento di Riad nell’assassinio.
C’è poi l’omicidio di Daphne Caruana Galizia. A settembre di quest’anno il governo maltese ha annunciato l’istituzione di un’inchiesta pubblica, invitando gli investigatori a garantire un processo “completamente indipendente e imparziale”. Ma al momento sono finiti in carcere solo i tre presunti esecutori dell’attentato, mentre dei mandanti non vi è alcuna traccia.
Giustizia la chiedono anche i giornalisti ingiustamente incarcerati, come l’egiziana Esraa Abdel Fattah. Lo scorso 13 ottobre, gli agenti di sicurezza hanno arrestato la reporter e coordinatrice dei social media per il Tahrir News. La Fattah è solo una dei sette giornalisti finiti in carcere per aver raccontato le proteste antigovernative iniziate a metà settembre in Egitto.
Esraa da due settimane ha iniziato uno sciopero della fame per protestare contro gli abusi subiti mentre era sotto custodia. Nelle prime ore di fermo l’hanno costretta a restare in piedi per otto ore di seguito. L’hanno schiaffeggiata e presa a calci ripetutamente, le hanno occluso il naso e la bocca con una felpa per costringerla a fornire le password per accedere agli account di posta e alle sue pagine social. Solo a quel punto le hanno permesso di chiamare i suoi avvocati. Torture fisiche e psicologiche che l’hanno segnata profondamente.
Anche Mahmoud Hussein, giornalista di Al Jazeera, ha subito lo stesso trattamento e ha già trascorso più di 1.000 giorni in carcere nel complesso penitenziario di Tora a Il Cairo, accusato di aver diffuso notizie false contro lo Stato. La detenzione preventiva è stata ripetutamente rinnovata in attesa del processo che tarda a essere istruito.
Ci sono poi i giornalisti di cui non si hanno più notizie. Il 21 novembre saranno trascorsi due anni in Tanzania dalla scomparsa del freelance Azory Gwanda, che aveva indagato su alcuni misteriosi omicidi nelle zone rurali del Paese centro africano.
Il governo non è riuscito a garantire un’indagine credibile né informazioni sul destino del reporter. A luglio, il ministro degli Esteri tanzaniano Palamagamba Kabudi aveva dichiarato che Gwanda era morto ma poi, pressato dalle richieste di chiarimenti su cosa fosse accaduto, aveva fatto smentito se stesso.
E ancora. La farsa in Messico del processo per l’uccisione di Miroslava Breach Velducea, nel marzo del 2017. La Breach era una donna di 54 anni coraggiosa e saggia che, nonostante avesse ricevuto ripetute minacce, continuava a portare avanti le sue inchieste sui narcopolitici messicani. Il suo è stato un omicidio mirato e pianificato. Nonostante sia stato individuato il sospetto assassino, le prove a suo carico appaiono deboli. Dopo l’ultima udienza lo scorso mese, il processo è stato rinviato a data da destinarsi. Intanto la mattanza continua. Nel 2019 dieci i giornalisti messicano uccisi.
Stessa sorte , in India, per l’inchiesta sulla morte di Shujaat Bukhari, direttore del quotidiano Rising Kashmir e corrispondente per the Hindu e BBC News. Da tempo era costretto a muoversi sempre accompagnato da una scorta. Lui e uno dei suoi bodyguard sono stati uccisi in un agguato. La polizia ha identificato quattro sospetti, uno successivamente ucciso in una sparatoria. Da mesi si attende l’avvio del processo.
E poi ci sono i giornalisti perseguitati, addirittura internati. Come nel caso di Nafosat Olloshukurova. Le autorità uzbeke hanno disposto la carcerazione della Olloshukurova in un centro psichiatrico con l’accusa di “atti vandalici e partecipazione a assemblee non autorizzate”. Aveva seguito e documentato la marcia per chiedere la liberazione del poeta e attivista Mahmud Rajabov nella capitale, Tashkent. La famiglia della blogger non ha più avuto sue notizie dal 23 settembre.
Infine, Agba Jalingo, in Nigeria, e Martin Inoua Doulguet, in Ciad, sono entrambi imputati in procedimenti giudiziari che potrebbero concludersi con condanne ingiuste.
Il primo, giornalista e editore di un giornale online “CrossRiverWatch”, è stato arrestato il 22 agosto a Lagos. Le autorità federali nigeriane lo hanno accusato di “turbare la pace pubblica e di tradimento dello Stato” con i suoi articoli e i post critici sui social media nei confronti del governatore Benedict Ayade. Rischia l’ergastolo.
Doulguet, direttore del quotidiano Salam Info, è imprigionato in attesa dell’Appello dopo la condanna a tre anni per cospirazione e diffamazione ai danni di un funzionario sanitario del governo ciadiano. I suoi avvocati denunciano che nei suoi confronti sia in atto un accanimento giudiziario e si rinvii il nuovo processo su spinte governative.
Oltre questi dieci casi, altre centinaia simili vedono coinvolti operatori dell’informazione in tutto il mondo che null’altro hanno da rimproverarsi se non di aver fatto il proprio mestiere. A schiena dritta.