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Scorsese nella migliore prova di sempre: The Irishman

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Presentato nella quinta giornata della Festa del Cinema di Roma nella Selezione Ufficiale, “The Irishman” di Martin Scorsese è la sorpresa migliore di questo festival e, senza ombra di dubbio, il coronamento trionfale di una carriera da cineasta vissuta avendo sempre il consenso unanime di critica e di pubblico. Un film che rimarrà nella memoria collettiva degli spettatori che amano quello che a buon titolo possiamo considerare uno dei più importanti registi della storia del cinema, che affonda le sue radici cinematografiche nella Nouvelle Vague francese e nel Neorealismo italiano.

“The Irishman”, della durata fiume di tre ore e mezza, è un film che reca impresse le sue impronte digitali: un misto di suspence ed ironia che tiene lo spettatore incollato alla sedia sino alla fine. Arriverà in alcune sale italiane tra il 4 e il 6 novembre e poi su Netflix dal 27.

La pellicola è tratta dal libro “L’Irlandese. Ho ucciso Jimmy Hoffa” (I heard you paints houses) di Charles Brandt, basato sulla vita di Frank Sheeran (Robert De Niro), reduce della seconda guerra mondiale, truffatore e sicario al soldo del Capo della famiglia mafiosa italo-americana dei Bufalino, Russell (Joe Pesci), quindi braccio destro del leggendario sindacalista leader dei teamsters Jimmy Hoffa (Al Pacino), “l’uomo più potente d’America dopo il Presidente”.

La sceneggiatura magistrale e di Steven Zaillian.

 In 210 minuti Scorsese ci racconta l’America dal ’49 al 2000, in un epico viaggio nei meandri della criminalità organizzata negli USA del dopoguerra, di cui vengono messi  a nudo i suoi meccanismi interni, svelate le sue rivalità, i suoi legami con la politica, nella ricostruzione che ne fa Frank Sheeran. Il film copre diversi decenni, con un’attenzione particolare a quello che rimane uno dei maggiori misteri irrisolti della storia americana: la scomparsa del leggendario sindacalista Jimmy Hoffa. Sullo sfondo quell’America che transita per l’uccisione di Kennedy, Nixon, il Watergate…

“The Irishman” apre con un Frank ottantaduenne, ormai confinato in un ospizio in sedia a rotelle che ricostruisce il suo viaggio in quell’America del secondo novecento nella quale era ancora capillare la presenza della mafia e dei poteri occulti.

La narrazione si snoda attraverso due fili conduttori: da una parte la trasferta in auto nel 1975 da Philadelphia a Detroit in auto con Russell Bufalino e le rispettive mogli in occasione di un matrimonio ‘di famiglia’, dall’altro l’ ‘ascesa’ di Frank da trasportatore di quarti di bue a ‘imbianchino’ – termine utilizzato in gergo per definire un sicario – per la mafia locale capeggiata da Bufalino e da Angelo Bruno (Harvey Keitel).

Ed è proprio Bufalino ad introdurre Frank a Hoffa “il nostro amico che ha problemi”. Sono gli anni di JFK e del fratello Bob neo procuratore generale, al quale Hoffa è particolarmente inviso. Dopo l’assassinio di Kennedy, Hoffa commenterà “Bobby Kennedy è solo un avvocato adesso”. Tuttavia un breve periodo ‘dentro’ per frode segnerà la fine del leader sindacale, presto scalzato dal rivale Tony Provenzano.

“Abbiamo fatto tutto il possibile per Jimmy”. E’ solo di fronte a queste parole di Russell che Frank comprenderà il vero scopo del viaggio a Detroit, e solo in quell’occasione il suo sguardo sembra tradire un’emozione. Frank Sheeran è un uomo ‘impermeabile’, così come tutto il film, costruito con tagliente distacco, non lascia spazio alle emozioni. Solo una delle quattro figlie di Sheeran, Peggy, fa eccezione a questa ‘regola di estraneità’: guarda al padre con sguardo accusatorio, interrompendo con lui qualsiasi rapporto dal giorno della scomparsa di Hoffa.

Veramente notevole l’ultima mezz’ora del film, di nuovo in quei giorni di inizio millennio. Frank è vecchio e solo, ultimo sopravvissuto, incapace di rimorsi, se non ‘per quella telefonata’, come rivelerà al confessore dell’ospizio, e accompagnato dal timore per la fine “la  cremazione è troppo definitiva”.

“The Irishman” riporta alla mente tanto “C’era una volta in America” di Sergio Leone dell’84, quanto i toni crudi di “Casinò” che Scorsese girò a metà anni ’90.

Con un cast eccezionale: Robert De Niro, Al Pacino, Joe Pesci (e Harvey Keytel), il film punta dritto agli Oscar, sia per quanto concerne gli attori protagonisti (un magistrale Robert De Niro affiancato da un altrettanto straordinario Al Pacino) sia per ciò che attiene gli attori non protagonisti (nello specifico Joe Pesci).

Il film verrà ricordato come la loro migliore interpretazione di sempre, anche grazie all’utilizzo del digitale CGI che ha permesso al regista di ringiovanire e invecchiare i protagonisti di 50 anni senza dover ricorrere ad altri attori. Un ‘miracolo’ che non sarebbe stato possibile senza il significativo investimento – 160 milioni di dollari – di Netflix.

Senza dimenticare naturalmente regia e sceneggiatura.

“La cosa più bella della storia è questo triangolo, questi tre uomini e la classica saga di lealtà, fratellanza e tradimento”, ha commentato Scorsese. “Si tratta di qualcosa di faustiano che mostra il costo emotivo e psicologico della situazione. Tutto questo ci sembra si adatti benissimo al periodo in cui viviamo”.

Un film epico in cui Scorsese affronta magistralmente, anche temi a lui meno congeniali come l’invecchiamento e la morte.

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