Una sentenza relativa a una vicenda di vent’anni fa, pronta per la decisione da otto anni e che da otto anni – per dodici volte! – viene rinviata per la “precisazione delle conclusioni”. E una seconda sentenza, strettamente collegata alla prima e riguardante la stessa vicenda, anch’essa pronta per la decisione da otto anni e che da otto anni – per dieci volte! – viene rinviata per la “precisazione delle conclusioni”. Capita anche ad avvocati e giuristi col pelo sullo stomaco, quando ne vengono a conoscenza, di fare un salto dalla sedia. Non si tratta, in tutta evidenza, di una questione di mera carenza di organici. Non a caso la vicenda tocca nervi sensibili – il diritto del lavoro, in pratica diritti e danaro sottratti a lavoratori, e l’informazione – in una regione come la Basilicata con bassi indici di sviluppo economico e sociale. Non a caso il tutto avviene in un tribunale, quello di Potenza, costretto ad operare in un contesto di radicata autoreferenzialità territoriale, quasi da piccola repubblica a se stante, e di conclamati, aggrovigliati intrecci fra malversatori e istituzioni. Non a caso, infine, è identico il paradossale iter, in relazione alla stessa ventennale vicenda – il fallimento dell’azienda editrice di un quotidiano, La Nuova Basilicata – delle due cause: quella riguardante complessivamente il fallimento e quella attivata individualmente dal direttore responsabile della testata. I fatti. Siamo negli anni Novanta del secolo scorso. Il mondo dei quotidiani (cartacei) in Italia non era disastrato come oggi. Non solo non chiudevano, ma addirittura ne nascevano di nuovi. Infatti nel 1996 erano 115, l’anno successivo 119 e quello ancora successivo 122. Io ritenevo e scrivevo almeno da un ventennio che solo la nascita di forti giornali locali (non i “panini” o le “pagine locali”) avrebbe consentito di attenuare il “crollo” che si intravedeva all’orizzonte e comunque la crisi – culturale, democratica e occupazionale – già in atto. A seguito del boom televisivo, affermavano i più. Certo, ammettevo e scrivevo io, ma soprattutto per una arretrata cultura editoriale e giornalistica incapace di concepire (e fare) quotidiani in termini di prodotti utili, di servizio, di mercato. Così come avevo fatto alla fine degli anni Settanta, quando abbandonai la Repubblica per andare a fare il “primo giornale locale moderno” nella mia regione di origine, nel sonnacchioso Salento (il Quotidiano ruppe un secolare monopolio), nel 1998 decisi di occuparmi della contigua Basilicata. Era l’unica regione italiana senza un proprio quotidiano. Un buco nel “mercato” editoriale e pubblicitario. Proprio su questo premetti, riuscendo a mettere insieme una decina di giornalisti (per metà locali, per metà romani, baresi e leccesi), un piccolo imprenditore locale che si occupava di alberghi e di una piccola emittente televisiva, l’Agenzia dei Giornali Locali del gruppo Espresso-Repubblica e la società di raccolta pubblicitaria Manzoni. Il 23 giugno 1998 era in edicola il primo numero de La Nuova Basilicata: un miracolo, “giornale popolare, cioè di tutti”, di grande vivacità e compostezza grafica, di taglio rigorosamente professionale; intreccio sistematico di alto/basso, nazionale/locale, serietà/leggerezza. Ovviamente una vera rivoluzione nella regione, sino ad allora priva di una propria voce, che però sorprese per la sua qualità l’intero mondo editoriale e giornalistico italiano. La Nuova in pochi mesi si impose come prodotto popolare e di servizio, e come libero e temuto interlocutore delle istituzioni locali. Per chi materialmente lo faceva ogni giorno – un piccolo gruppo di giornalisti, poligrafici e impiegati – una impresa entusiasmante e una fatica del diavolo. Ma dopo circa un anno, in occasione della scadenza dei primi contratti giornalistici a costi agevolati (e a retribuzione bassa), consentiti dal patto Fieg-Fnsi finalizzato ad agevolare la nascita della nuova, coraggiosa iniziativa editoriale, avvenne però la rottura del rapporto fino ad allora perfetto fra l’editore e la redazione da me guidata. Non volendo sottoscrivere, come da accordi, la trasformazione di quei contratti provvisori e agevolati in contratti definitivi, ne pretendeva la chiusura, a cominciare da quelli sino ad allora operativi con i giornalisti più bravi e indipendenti e quindi a lui più antipatici. Proprio quelli che sino ad allora avevano dato l’anima per l’affermazione della testata e che solo potevano garantire, in Basilicata, la sua sopravvivenza e l’ulteriore penetrazione nel mercato. Come direttore, mi opposi drasticamente: per il rispetto dei colleghi, per il bene della testata e per la salvaguardia dello stesso interesse aziendale. In breve: licenziamento in tronco, non motivato. E incomprensibile – solo qualche settimana prima mi era stato garantito il contratto addirittura per dieci anni – se non per strozzare sul nascere una realtà professionale e culturale che stava già operando virtuosamente per portare trasparenza e partecipazione in un contesto segnato da opacità e separatezza: da una parte, pochi privilegiati, amici e amici degli amici; dall’altra, la massa di cittadini disinformati e costretti a vivere perlopiù in condizioni di arretratezza culturale ed economica. E questo, nonostante le rendite assicurate alla regione in particolare dal petrolio e dall’acqua, oltre che da un fiume di contributi pubblici (nazionali ed europei) che però finivano e, forse, finiscono ancora sempre nelle stesse tasche. L’ultimo numero del giornale da me firmato porta la data del 27 marzo 1999. Da allora sono stati allontanati la totalità dei giornalisti che avevano dato vita all’iniziativa, progressivamente ridimensionata e cancellata come elemento di modernizzazione e democratizzazione nella regione. Quel foglio è stato risucchiato nello status quo imposto ai lucani da una classe dominante ristretta e ingorda che, per continuare a lucrare privilegi e rendite parassitarie, li ha isolati dal contesto nazionale civile e per molti aspetti persino legale, come testimoniano gli “scandali” e gli episodi di corruzione che periodicamente scoppiano in quella pur nobile e bellissima regione. E sono state avviate le due vertenze. La prima, su mia iniziativa, a seguito delle gravi, molteplici mancanze dell’editore (licenziamento immotivato, mancato reinsediamento, mancato pagamento delle retribuzioni, mancata tutela legale pur contrattualmente garantita, carte falsificate, decreti ingiuntivi disattesi, ecc.). E, a seguire, quella sul fallimento aziendale, al quale ne è seguito un altro (o altri due, non so), in conseguenza di una gestione, diciamo così, avventurosa e spregiudicata (che però non ha impedito al tribunale di Potenza di assolvere nel giugno 2017 l’editore dal reato di bancarotta fraudolenta). Intanto La Nuova Basilicata diventava La Nuova del Sud, si riduceva a modesto “panino”, l’amministratore diventava il figlio dell’editore, di cui poi prendevano il posto altri suoi sodali… Si accumulavano così vent’anni dal mio licenziamento, con rinvii e fascicoli ripetutamente inseriti in coda nel calendario delle udienze, il fallimento, le deposizioni tardive, le verifiche dello stato passivo e infine gli otto anni di rinvii di ufficio per la “precisazione delle conclusioni”. La situazione oggi è questa: 1) la mia causa contro l’editore Donato Macchia – pronta per la decisione sin dall’11 maggio 2011e poi rinviata dal giudice per dieci volte – sarà discussa o, come è più prudente dire, visti i precedenti, dovrebbe essere discussa il prossimo 4 novembre; 2) per la causa contro il fallimento della società editrice Alice Idea Multimediale – pronta per la decisione sin dal 2 luglio 2011e poi rinviata dal giudice per dodici volte – la prossima udienza è fissata al 22 gennaio 2020. Al di là delle vite, non solo professionali, coinvolte e travolte da vicende come questa, si conferma netto il criterio di funzionamento del sistema, a suo modo logico e puntuale: vietato promuovere modernizzazione e democratizzazione, specie in un settore così incisivo come l’informazione, in aree che dovrebbero essere e restare votate all’isolamento, nella “retroguardia” dell’assetto sociale e culturale nazionale. Sei un giornalista che ha acquisito competenze e indipendenza a Roma? Allora ci rimani, fa’ la tua comoda carriera, accontentati della visibilità e degli agi che Roma o Milano può garantirti e non metterti in testa di andare a smuovere le acque, per esempio, in Basilicata. Lascia stare. Altrimenti scatta la punizione: la conclusione violenta e illegale del contratto, l’impunità del violatore, la disoccupazione, la solitudine, i problemi economici… Si pensi a quella decina di ragazzi che si erano messi in testa di fare un giornale moderno e democratico, negli anni Novanta, là dove si fermò Cristo, e i problemi che si sono creati dovendosene poi tornare scornati e disoccupati nelle rispettive sedi (Bari, Lecce, Roma, Milano…). Anch’io, che ero – o meglio sembravo – il più garantito, ho dovuto fra l’altro affrontare da solo, per molti anni, le rogne e le spese di otto procedimenti giudiziari accumulati come direttore responsabile de La Nuova Basilicata, nonostante l’impegno contrattuale di copertura assunto dall’editore in materia. Ma questo e tutto il resto, anzi in toto il contratto regolarmente firmato, è come se fosse carta straccia. Totalmente inapplicato, a cominciare dal mancato pagamento di stipendi, rimborsi e liquidazione. Così, dopo vent’anni, per me e per gli altri colleghi c’è persino l’impossibilità di accedere almeno al Tfr, bloccato dai continui, scandalosi rinvii del Tribunale di Potenza che non riesce a “precisare le conclusioni” di due sentenze sentenza già pronte per la decisione. Da otto anni!