Peter Handke Premio Nobel per la letteratura 2019: ho provato un sussulto nell’apprendere che l’Accademia di Svezia ha conferito il prestigioso riconoscimento allo scrittore e drammaturgo austriaco (insieme alla scrittrice polacca Olga Tokarczuk). Davvero non me l’aspettavo. Ben altri mostri sacri erano in lizza, di qua e di là dell’Oceano Atlantico. Per Walter Siti, critico letterario e televisivo, professore di Italianistica a Pisa e poi a L’Aquila e Roma, nonché scrittore in proprio di romanzi e saggi, addirittura il Nobel sarebbe dovuto andare postumo a Philip Roth, cosa fra l’altro impossibile da regolamento di Stoccolma. E perché non al francese Carrère, scrittore ancora relativamente giovane e di gran classe, autore di anti-fiction in una fase in cui invece va di moda la fiction nei romanzi e premi nostrani e dell’Oltralpe (ove anche un Houellebeque, scrittore oceanico di lingua francese, poi non sarebbe secondo a nessuno per ideazione e rigore formale). Insomma un gran vociare e commentare ante verdetto da parte di illustri critici (ieri mattina a RAI Radio3 ne riportava a gran titolo nella sua rubrica, Nicola Lagioia, che aveva chiesto a fior di letterati nostrani una rosa di candidati in procinto di verdetti svedesi). O perché non invece all’ormai semi dimenticato Milan Kundera, quello dell’ Insostenibile leggerezza dell’essere, successo mondiale Anni Ottanta? (lo cantava pure l’Antonello Venditti nazionale).
Sparigliando ogni ipotesi, e a sorpresa come il coniglio di Alice, si appalesa una vittoria di uno scrittore, poeta e drammaturgo appartato, di lingua tedesca e da tempo fuori dal coro qual è Peter Handke. Personalmente avevo amato questo autore per la sua sceneggiatura nel film Il cielo sopra Berlino di Wim Wenders ( 1987) e ancora prima per il suo contributo al film Lo stato delle cose, ambientazione Oceano Atlantico in Portogallo: un film del regista tedesco Wim Wenders. Una pellicola in bianco e nero ambientato in un vecchio albergo davanti a un mare oceano di onde larghe. Vinse il Festival del Cinema della Biennale di Venezia nel 1982. Tutto vecchio. Tutto da rifare- diceva Bartali che portava fra Toscana (ma anche in Veneto tra professori delle medie) e altre regioni, in bici, dei “pizzini” evitando le pattuglie naziste delle S.S. Passione da cinefila. Perché il cuore di Peter Handke è inscritto nella sceneggiatura di registi cult anni Settanta. Poi ho scoperto alcuni suoi romanzi scritti con una maestria ed originalità che mi aveva riportato a certi lavori di scrittori in lingua tedesca, nel solco di Thomas Bernhard, come furore e di incisiva sintesi qual’è, ad esempio, Ingeborg Bachmann. La donna mancina, dove un femminismo di asciuttezza anglosassone descrittivo, mi ricordava Marguerite Duras del film Indocina, e l’Assenza, testo criptico, allegorico: due capolavori di pulizia formale e di misteriose assonanze in un’epoca di frastuono, già presenti nella scrittura di Handke negli anni Novanta. In quella fase storica lo scrittore prese posizione a favore della Serbia in quel conflitto fra popoli slavi, così vicini a Trieste e alla Carinzia, dove era nato.
In seguito ho assistito, da critico teatrale, dentro al Carcere di Volterra, con la regia di Armando Punzo ad uno spettacolo indimenticabile portato in scena dalla Compagnia della Fortezza: Insulti al pubblico, una drammaturgia scritta (lo avrei saputo in seguito), da un Handke ventenne. Ne sono rimasta folgorata. Accanto a me c’era il critico di Repubblica, per me figura di riferimento di intellettuale di allora e ora: Nico Garrone. Ne scrissi su Hystrio. Insulti al pubblico è una partitura irriverente, apparentemente giocosa in realtà un continuo e reiterato saccheggio beffardo di spunti di fragorosa presa in giro e critica efferata di una società pervasa dalla consumistica abbeveratura di slogan di paradisi artificiali. Tema che dentro un carcere di massima sicurezza era di una devastante crudezza. Mi stupì che tra il pubblico presente quasi nessuno rideva. A conferma della eccezionalità della scrittura del poeta austriaco, della sua visionarietà. Giovanna Daddi e Dario Marconcini al Teatro di Buti, che della ricerca e messa in scena di testi originali tedeschi e inglesi hanno fatto un loro must, anzi la loro più che quarantennale carriera, ho assistito e scritto (la recensione è stata pubblicata su Rumor(s)cena), un straordinario spettacolo: I bei giorni di Aranujez.
Un dialogo-monologante fra un uomo e una donna di una visionarietà e attualità sconvolgente. Presentato come film al Festival del Cinema di Venezia, dove non aveva avuto successo – e non ci meraviglia affatto data la scomodità del tema – data la sua intrinseca verità; tanto che in un recente Convegno di psichiatria e Teatro è stato citato da un luminare, il tema affabulante minimalista in cui ciascuno monologa con l’altro e ciascuno con se stesso. A riprova della incomunicabilità del discorso parlato dal corpo e dalle esperienze dove fra femminile e maschile ci sarebbe il baratro (nella testualità mirabilmente evocata da Giovanna e Dario, l’apparente dialogo fra amanti vede lui parlare di guerra e lei di natura e bellezza dentro un sorta di Eden immaginario). E qui l’americano più volte in odore di Nobel autore del romanzo Pastorale americana, Philip Roth, davvero non avrebbe avuto niente da insegnare alla magistralità sapiente e riservata di Handke, che nel suo eremo di scrittura dalla Foresta Nera in Germania cosi ben aveva colto lo spirito del nostro Vecchio continente novecentesco. Come del resto un certo italiano: Michelangelo Antonioni. Italiani anni Settanta. Un cinquantennio fa. A cominciare da film come come Zabrinski Point.
Peter Handke riceve il Nobel per la Letteratura con la motivazione di aver dimostrato “la straordinaria attenzione ai paesaggi e alla presenza materiale del mondo, che ha reso il cinema e la pittura due delle sue maggiori fonti di ispirazione”. Per la collana Saggi Arte e letteratura, edita da Bollati Boringhieri nel 2001 Hans Kitzmüller scrisse la prima monografia italiana dedicata ad Handke, dove l’autore si concentrava sull’opera del controverso scrittore, scandagliando i singoli testi e relative posizioni teoriche, al fine di ripercorrere l’esperienza condotta durante la sua carriera e vita, sempre all’insegna della contrapposizione dialettica (ma anche politica) e del suo evidente dissenso dimostrato nei confronti di una cultura prevalente. Hans Kitzmüller nella Premessa al saggio “Peter Handke. Da Insulti al pubblico a Giustizia per la Serbia”, scrive: «Lo scalpore suscitato da una netta stroncatura dello sterile e acritico realismo di alcuni autori vicini al Gruppo 47 e lo strepitoso esordio con una sorprendente pièce teatrale, intitolata ed effettivamente consistente in “Insulti al pubblico (Publikumsbeschimpfung)” avevano subito fatto circolare, nel 1966, il nome di un ventiquattrenne austriaco che sembrava uno dei Beatles. In pochissimo tempo poi Peter Handke si sarebbe imposto sulla scena letteraria tedesca ottenendo grandi successi con testi che evidenziano le connessioni esistenti fra strutture linguistiche e meccanismi psicologici». La citazione rimanda ad una versione di questo testo per il teatro vista a Milano nel 1992 , un allestimento di Teatri Uniti di Napoli (fondata da Mario Martone, Toni Servillo e il compianto Antonio Neiweller) dove in scena recitavano Licia Maglietta e Andrea Renzi anche registi (la memoria fallace mi confonde ora quale fosse il teatro che ospitava), ma la sensazione è quella di aver vissuto un’esperienza quasi “traumatica” per un giovane spettatore poco avvezzo a questo genere di teatro. La forza dirompente del testo scardinava qualunque reazione compassata o fintamente asettica del pubblico. Impossibile non restare coinvolti in una dinamica che imbrigliava chiunque fosse seduto in platea. Scrive ancora Hans Kitzmüller nella monografia dedicata allo scrittore austriaco (76 anni compiuti è originario della Carinzia) nel 4 capitolo “Le parole in scena”: «Il chiarore in sala e sul palcoscenico è quasi lo stesso, ma non così forte da fare male agli occhi. La pièce Insulti al pubblico si prefigge sin dalla prima didascalia di scena l’annullamento della finzione teatrale: mentre le luci vanno spegnendosi, dietro il sipario ancora chiuso rumori veri devono simulare l’allestimento di una scenografia; poi invece, al levarsi del sipario, le luci si devono riaccendere contemporaneamente hier un dort (qua e là), cioè su un palco vuoto e in sala, dove al buio al pubblico composto ha atteso l’inizio della “rappresentazione”. Appaiono quindi quattro personaggi (nella versione originale del copione sono previsti 4 tra attori e attrici, ndr) che cominciano a parlare rivolgendosi agli spettatori che progressivamente si rendono conto di essere loro, in quanto pubblico, i veri protagonisti di quell’azione teatrale, non più un evento scenico, ma una “chiamata in causa”, uno smascheramento. Il testo si rivela poi la ricostruzione forse più minuziosa e più precisa del processo psicologico di assunzione del proprio ruolo da parte di un pubblico tradizionale ed è allo stesso tempo un perfetto resoconto del rituale di una serata a teatro che induce il singolo spettatore a ripercorrere, enumerando atteggiamenti e movimenti, tutto il percorso dalla propria casa sino al posto in cui si è accomodato. La parte conclusiva, una lunghissima sequenza di ingiurie rivolte alla sala, costituisce l’invenzione davvero geniale della pièce. Questi insulti non instaurano soltanto un rapporto più diretto, intrusivo e brutale degli Sprecher (oratori) con il pubblico, ma allo stesso tempo passano in rassegna tutti gli aspetti più spregevoli della società tedesca del tempo – in un certo senso anche dell’umanità in genere – anche se, come precisato nelle istruzioni per la regia: “Gli insulti sono rivolti a nessuno in particolare”. Tale sequela – spiega ancora Hans Kitzmüller – di ingiurie, la Schimpfprobe, si conclude quando gli insultatori, lentamente avanzando, giungono sino al bordo estremo del proscenio. Quello che all’inizio era stato annullato, alla fine viene ristabilito con una consapevolezza nuova: il gioco può consistere infatti anche nell’abolizione delle sue regole e nella conquista di un’autonomia da parte di chi lo dirige». Licia Maglietta e Andrea Renzi nella versione da loro realizzata per Teatri Uniti erano riusciti perfettamente nell’aderire alle intenzioni drammaturgiche di Peter Handke – come egli aveva pensato nello scrivere Insulti al pubblico, con l’intenzione di andare contro ad un genere di teatro intriso di ideologie come era quello di Bertold Brecht e Peter Weiss».