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Mafia capitale non è mafia? Sentenza discutibile

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L’ex Presidente della II sezione della Corte di Cassazione in un intervento pubblicato da Fanpage.it spiega, dal suo punto di vita, le incongruità nel dispositivo della sentenza di terzo grado su Mafia Capitale che ha fatto cadere l’aggravante di associazione mafiosa per Buzzi, Carminati e altri 16 imputati.

È certamente buona regola aspettare le motivazioni di una sentenza prima di esprimere considerazioni, siano esse positive o negative, in ordine alla decisione adottata. Ma, nel processo così detto “Mafia Capitale”, il dispositivo della sentenza della VI sezione penale della Corte di Cassazione – con la quale si è ritenuto che, nella specie, non si fosse in presenza di una (unica) associazione di stampo mafioso (art. 416 bis c.p.), bensì fossero sussistenti due distinte associazioni a delinquere “semplici” (art. 416 c.p.) – offre già il fianco ad alcune considerazioni critiche. È sicuramente molto discutibile che la Corte di legittimità – a fronte di una motivazione della Corte di Appello che, con specifico riferimento a plurime risultanze processuali, ha ritenuto, con diffuse argomentazioni che non appaiono manifestamente illogiche e contraddittorie (pagg. 369 – 379 sent. II grado) essersi in presenza, di un’unica, inscindibile, associazione a delinquere di cui ha rilevato, per centinaia di pagine, il carattere mafioso – possa ravvisare l’esistenza di due distinte associazioni a delinquere ciò comportando una valutazione in fatto e un accertamento di merito non consentiti al giudice di legittimità che, ove avesse, in ipotesi, ritenuto manifestamente illogica o contraddittoria la motivazione in proposito adottata dalla Corte territoriale, avrebbe dovuto annullare la decisione con rinvio ad altra sezione della Corte di merito per nuovo esame sul punto.

Più evidente ancora sembra essere l’altro errore in cui è incorsa la VI sezione penale della Corte, spesso incline all’annullamento, da ultimo quello concernente la misura cautelare personale emessa a carico del Presidente del Consiglio comunale di Roma, Marcello De Vito indagato per corruzione. Il Tribunale, in I grado, aveva ravvisato l’esistenza di due associazioni a delinquere “semplici”: una prima associazione capeggiata da Massimo Carminati – pericoloso pregiudicato con un elevatissimo spessore criminale (per la sua contiguità alle formazioni eversive di estrema destra e alla Banda della Magliana e per la sua accertata responsabilità in ordine ai reati di furto, rapina, lesioni, detenzione e porto illegale di armi) e che, come rileva la Corte di Appello, gli consentiva di esprimere una notevole forza di intimidazione verso l’esterno – e composta anche da Riccardo Brugia, “braccio destro” di Carminati, Matteo Calvio (detto “lo spezzapolllici”) e da Roberto Lacopo, dediti alle estorsioni. Una seconda associazione a delinquere composta dagli altri imputati, capeggiata da Salvatore Buzzi (e di cui facevano parte anche Carminati e Brugia) dediti alla corruttela politica e alla turbata libertà degli appalti pubblici. Il Tribunale, quindi, ha ritenuto che esistessero due associazioni a delinquere non di stampo mafioso e, a tal fine, ha escluso per i partecipanti all’associazione capeggiata da Carminati l’aggravante di cui all’art. 7 D.L. n° 152/1991 e, cioè, l’aver utilizzato il metodo mafioso per commettere le plurime estorsioni loro contestate ai capi 2, 3, 4, 5, 6 e 7 dell’imputazione.

La Corte di Cassazione, da quel che emerge dal dispositivo – mentre ha escluso per i suddetti imputati l’aggravante di cui all’art. 628 comma 3 n° 3 (“se la violenza o minaccia è posta in essere da persona che fa parte dell’associazione di cui all’art. 416 bis c.p.”) – ha mantenuto ferma l’aggravante (già riconosciuta in appello) di cui all’art. 7 D.L. n° 152/1991. Ed, allora, i partecipanti all’associazione a delinquere capeggiata da Carminati hanno posto in essere plurimi reati di estorsione usando il metodo mafioso (lesioni, percosse, minacce, anche di morte, e di incendi). Ciò significa che, se tali forme di manifestazione della condotta qualificano il comportamento di partecipazione ad un’associazione diretta alla commissione di più delitti, risulta difficile ritenere che quest’ultimo sodalizio non sia sussumibile nella fattispecie di cui all’art. 416 bis c.p.: tale ipotesi, infatti, si configura, in luogo di quella di cui all’art. 416 c.p., e se ne distingue proprio per le forme di condotte da cui derivano condizioni di assoggettamento e di omertà. Sarà, quindi, interessante conoscere, con il deposito della sentenza, quale vizio la Corte di legittimità abbia riscontrato nell’avere la Corte di Appello motivato in ordine alla esistenza di una sola associazione (mafiosa) e, ancor più interessante, sarà conoscere in che modo la medesima Corte di legittimità abbia escluso il carattere mafioso dell’associazione capeggiata dal Carminati nonostante che i suoi partecipanti siano stati ritenuti colpevoli di reati commessi con l’aggravante di cui all’art. 7 D.L. n° 152/1991 avendo posto in essere condotte con forme di violenza o minaccia che assumono “veste” tipicamente mafiosa (percosse, lesioni, minacce di morte, minacce di incendiare manufatti, minacce di inviare emissari per superare le resistenze della vittima, ecc.).

Antonio Esposito, già Presidente titolare della II sezione della Corte di Cassazione


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