Cinquant’anni di Internet. Ieri si è celebrata la ricorrenza della nascita del primo collegamento tra due computer in California. L’esperimento aveva, ovviamente, una valenza scientifica ed accademica e nessuno dei protagonisti di allora poteva immaginare quello che sarebbe successo. In verità, rapidamente il salto tecnologico fu sussunto dal dipartimento della difesa degli Stati uniti. Eravamo ancora nella stagione della guerra fredda e l’opportunità di costruire un sistema flessibile e virtuale parve un toccasana di fronte ai rischi di un improvviso black out dovuto ad un ipotetico attacco dell’armata rossa. La denominazione fu “Arpanet”.
Facciamo, però, un passo indietro. Siamo sicuri che, magari nel chiuso dei laboratori, l’”invenzione” non fosse già matura e tuttavia trattenuta per l’assenza di una vera finalità? Non sarebbe stata, del resto, la prima volta. Non ci sono quasi mai un’eureka o un giorno fatidico. Le scoperte scientifiche sono un lento accumulo di saperi, capaci di sbocciare e di prendere le sembianze della cerimonia di nascita se si incrociano con convenienze esterne solide, economiche o politiche o culturali che siano.
Fu così, ad esempio, per la radio e per la stessa televisione, vive e vegete ben prima della certificazione ufficiale. E’ utile sempre inquadrare le tecniche in un contesto più ampio, evitando di considerarle improvvise divinazioni del genio umano. Del resto, proprio le diverse vite di Internet sono la riprova di quanto contino i contesti. Gli Internet studies hanno descritto diverse ere: dapprima lo scambio tra piccoli gruppi, poi lo sviluppo del Web (straordinario risultato del lavoro di Tim Berners-Lee) e del browser decisivi per il boom dell’economia digitale, ancora (dal 2004 in poi) l’epopea dei vari 2, 3, 4.0. Proprio nella quarta fase , l’epoca delle piattaforme e della trionfale “discesa in campo” di Facebook e Google nonché –dopo- di Twitter (Apple e Microsoft già erano in scena da tempo), l’identità profonda della macchina cambia di segno. Da luogo di libertà e di superamento progressivo delle mediazioni, via via la rete è diventata territorio di conquista finanziaria dietro l’apparente gratuità e l’avamposto del terribile capitalismo della sorveglianza. I nostri profili digitali (a noi pressoché ignoti) sono oggetto di mercimonio per finalità di lucro e soprattutto di un ossessivo controllo sociale. Non solo. Sono cresciute le campagne di odio e di denigrazione, come l’attualissimo caso di Liliana Segre dimostra.
Google lancia un nuovo algoritmo che interpreta le domande, al controllo facciale non sfugge neppure l’emozione profonda, l’impero di Zuckerberg si fa gioco delle regole e mette probabilmente in bilancio le multe che gli piovono addosso.
Negli Stati uniti Elizabeth Warren ed Alexandria Ocasio-Cortez, due democratiche di generazioni lontane, hanno posto il tema cruciale. E’ legittimo che i nuovi esponenti del sesto potere non siano sottoposti ad un rigoroso vaglio antitrust? Se mai scomponendoli? La vecchia padrona delle telecomunicazioni degli anni ottanta – l’AT&T- fu suddivisa in ben sette società. Facebook è il più grande “stato” del mondo, con due miliardi e duecento milioni di utenti; Google controlla i flussi della conoscenza con algoritmi di cui le istituzioni pubbliche dovrebbero pretendere la trasparenza. Niente da fare?
L’annuale riunione dell’Internet governance forum (IGF), l’organismo delle Nazioni unite dedicato alla rete nato con Stefano Rodotà nel 2006, si terrà a novembre a Berlino. Si deciderà finalmente qualcosa?