La sua “preziosa” esperienza in Parlamento

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di Nilde Jotti

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Nilde Jotti, Presidente della Camera dei Deputati

Il primo vivido ricordo che ho di Cesare Terranova risale  ad  una  diecina  d’anni  prima  che  lo  conoscessi.
Erano  gli  anni roventi  della mafia palermitana,  e pro­prio le inchieste e le sentenze  di Terranova furono ele­mento decisivo per trovare la chiave risolutrice degli in­terrogativi che mi ponevo ogni volta che mettevo piede a Palermo: perché la distruzione del liberty di via Liber­tà? Come si può abbattere in una notte un gioiello come Villa Deliella? Perché la pianta della <<nuova » città è stata  tracciata  a raffiche di mitra dalle bande mafiose?
Cesare  Terranova aveva non  solo  intuito ma anche dimostrato che dietro i gangsters e i divoratori della cit­tà – e a farne la vera forza – c’era un potere politico reale, c’erano uomini e forze dell’amministrazione co­munale di Palermo. E aveva chiamato in causa i responsabili, con determinazione, rigore e coraggio: non de­nunciava il potere solo a parole, o solo genericamente. A  quella del giudice onesto e intemerato, un’altra e ancor piu sorprendente immagine di Cesare Terranova più tardi si aggiunse: e oltre l’intelligenza critica stavol­ta colpì anche il mio  cuore.
Fu in occasione della  sua lunga inchiesta per un fatto di cronaca che angosciò tut­ta l’Italia:  la scomparsa  e l’uccisione  delle tre povere bambine di Marsala.
Mi colpì, allora, l’assoluta discrezione e l’intelligente umanità con cui non solo aveva resistito e reagito alle suggestioni inquisitorie e al clima da caccia alle streghe che, nell’impasse di quella difficile inchiesta, si andava­ no creando; ma aveva alla fine anche risolto il caso con una  sagacia ed un tatto francamente insoliti.
Potei dirgli di questi miei sentimenti solo nell’estate del ’72 quando Cesare Terranova, da poco eletto a Montecitorio, pronunciò in aula un breve intervento con quel suo tono discreto ed essenziale che aveva subi­to colpito molti e più vecchi colleghi. Ero vice­ presidente della Camera, allora, ed era toccato a me, quel giorno, dirigere i lavori. Lo feci chiamare al banco della presidenza,  mi felicitai, gli augurai buon lavoro anche fra noi. Vinse a stento la timidezza.
Lo rividi piu volte in quella breve legislatura; ed in quella successiva, ancor piu breve ma cosi intensa, che fu  segnata  dall’esperienza   della  solidarietà  nazionale.
Cesare Terranova era assai impegnato nei lavori con­clusivi  della commissione parlamentare  Antimafia.
Assolveva al suo mandato parlamentare con impe­gno, con scrupolo. Non era comunista, certo; ma espri­meva con grande coerenza i sentimenti di quella parte – così significativa in Sicilia – della borghesia intellet­tuale che non si rassegna, che opera attivamente, che sa collegarsi con le forze nuove della democrazia e del pro­gresso.
Eppure colsi in lui – sotto sotto -una riserva men­tale: considerava l’incarico parlamentare non come uno scopo ma come un’esperienza che gli sarebbe stata utile, «preziosa» mi disse anzi una volta, al momento della ri­presa del suo impegno in magistratura.  Che venne da lì a poco.
Non lo rividi. Seppi soltanto, nell’estate del ’79, che avrebbe assunto uno dei più alti e delicati uffici giudiziari della Sicilia. Ma alla ripresa dei lavori parlamentari, un pomeriggio di fine settembre, toccò ancora a me pronunciare nell’aula di Montecitorio il nome di Cesare Terranova, per annunciare il barbaro assassinio suo e del maresciallo Lenin Mancuso consu­mato appena poche ore prima a Palermo; e per denun­ciare come e quanto fossimo di fronte ad un’azione cri­minale che metteva in forse la libertà della politica e che per questo colpiva e colpisce tutti noi.
Avvertimmo subito quel delitto come strumento, co­me pratica di intervento nella vita politica e sociale, per condizionarla profondamente e per imporle inammissi­bili limiti. Per questo, la scelta di Cesare Terranova non appariva e non era casuale: a chi ha bisogno di una Sici­lia addormentata e dove nulla si muova, la sua tenacia e la sua passione facevano paura.
Non avemmo nemmeno molto tempo per le lacrime e le condanne: sentimmo – e altri tragici segnali ne diedero la conferma, ultimo nel tempo l’assassinio di Pio La Torre e Rosario Di Salvo, così tragicamente simile – che l’attacco aveva potuto ulteriormente dispiegarsi perché non era stato fatto tutto quel che si poteva e do­veva fare per combattere il terrorismo politico-mafioso.
A cominciare dalla definizione e dall’uso di quei pm adeguati e moderni strumenti di lotta cui tra i primi aveva pensato Cesare Terranova, forte di una esperien­za che è stata e resta preziosa per quanti continuano a battersi, anche in suo nome, per una Sicilia ed un’Italia moderna e civile.

Da mafie


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