Con il sinodo per l’Amazzonia la Chiesa di Francesco prosegue il suo cammino di riforma e il pluralismo emerge come vero elemento di novità, capace di renderla davvero universale proprio nell’accettazione di un’umanità plurale nelle sue culture. Si parte dalle periferie, non più dal centro che tutto assorbe e indirizza secondo un’unica lettura del mondo. Dunque tante culture che convergono al centro, non la cultura del centro che uniforma tutte le periferie del mondo secondo una sola cultura, una sola visione del mondo.
Si parte dall’Amazzonia. Il polmone del mondo, lo chiamiamo sempre così, ha qualcosa da darci e da dirci? O è soltanto un bacino di risorse del suolo e del sottosuolo? Si può vivere l’Amazzonia con e nella cultura occidentale, imposta come unica cultura della Chiesa universale, o lo si può fare solo riconoscendo la cultura amazzonica, fatta di legami speciali con la natura? Il fiume e la terra, la madre terra, possono essere riconosciuti come miti fondanti la cultura di chi vive l’Amazzonia? Il cristianesimo può entrare nei miti e nei riti dei popoli amazzonici e con loro avversare devastazione e sviluppo insostenibile, predatore, saccheggiatore? Francesco dice di sì, che può. Ma per farlo deve riconoscere quei popoli portatori di valori, di una cultura “altra” che va rispettata e integrata nel grande mare plurale delle culture che confluiscono nel grande rio della cristianità. Si legge nel documento che è alla base dei lavori sinodali: “ La diversità amazzonica evoca una nuova Pentecoste.” E’ solo così che il grido dei popoli amazzonici potrà echeggiare nel grido cristiano, farvi entrare quelle culture, renderlo più forte del grido delle miniere illegali, delle motoseghe che abbattono foreste, delle razzie che trasformano in prostitute intere generazioni di giovani amazzoniche. Portare il cristianesimo in Amazzonia renderà il cristianesimo plurale, anche grazie all’ordinazione all’interno di quei popoli di anziani sposati che lì vivono secondo i loro costumi e nei loro villaggi, consentendo al popolo di Dio di condividere il pane eucaristico.
Per entrare davvero nel mistero Amazzonia c’è oggi un lavoro eccellente di Lucia Capuzzi e Stefania Falasca. I padri sinodali faranno bene a leggerlo. A cominciare da quelli, ovviamente, che già firmano documenti contro le proposte su cui ruoterà il dibattito sinodale. Questo libro spiega benissimo e in poche pagine perché la Chiesa di Francesco non possa tacere, girarsi dall’altra parte. Il viaggio di Capuzzi e Falasca comincia, guarda un po’, con l’oro. Non più quello bianco, il caucciù, che gli indios ridotti in cattività erano costretti a strappare come sangue dalle vene degli alberi. Non il nuovo oro è quello giallo, di cui il Perù è il sesto esportatore mondiale, 160 o 170 tonnellate annue. “Buona parte di queste- almeno il 22 per cento, ma potrebbe essere il triplo- vengono estratte a Madre de Dios, senza che vi sia una sola miniera legalmente riconosciuta. Non solo. Il 44,5% per cento del Pil regionale dipende dal business dell’oro, il quale al 95% per cento, è di origine sconosciuta.” Economia di rapina, spirito di dominio, è questa la la civiltà dei civilizzatori.
Questioni che non riguardano la Chiesa? Dovrebbero riguardarla però i postri-bar, di cui il volume offre un’accurata e agghiacciante presentazione. Le autrici narrano di La Pampa, dove solo la piazza centrale ospitava 32 locali a luci rosse. Quante minorenni e quante maggiorenni vi erano costrette a prostituirsi? Stanno lì per dare conforto a chi doveva lavorare nelle miniere illegali, che tra il 2013 e il 2016 hanno divorato 30.500 ettari di bosco? Forse sì, di sicuro erano minacciate di ritorsioni contro le loro famiglie, e sa la polizia cerca di liberarle, le maggiorenni negano di stare lì in schiavitù, per evitare guai ai loro cari. E’ un altro tratto del dominio, della rapina, questa volta di vite, di anime.
Le nuove arrivate si distinguono dai capelli, ancora neri, mentre quelle giunte da tempo sono ormai bionde platino. Anche queste sono questioni che non sembrano giustificare un sinodo? Come quelle relative al saccheggio della cordigliera? Vediamo. A Quito qualche tempo fa si illustrò al popolo la bellezza della nuova costituzione che coinvolgeva le comunità negli investimenti ad alto impatto. Ben presto però il coinvolgimento si è trasformato in generico diritto di informativa e sono arrivati i megaprogetti strategici ed ecco ventisei permessi di megaimpianti di estrazione in mano a cinesi, canadesi e australiani. Presto si processeranno 60mila tonnellate di roccia al giorno, grazie al lavoro a ciclo continuo degli operai, in servizio h24. Serviranno 16.540 metri cubi d’acqua, cioè 1950 litri al secondo. Facile immaginare l’inquinamento, acustico e ambientale, che ne scaturirà. Non esagera Rosa Sànchez a dire che presto lì non ci sarà più nessuno, “ci avranno uccisi o costretti a fuggire.” E il petrolio? Sono privi d’oro nero in Amazzonia? No, non lo sono.
Andando nelle provincie di Orellana e Sucumbòs si scoprono cose interessantissime, per esempio che questa regione è stata acquistata dalla società petrolifera Texaco tanto tempo fa: acquistata a sua volta nel 2001 dalla Chevron, la Texaco aveva nel suo portafoglio questo territorio di quasi mezzo milione di ettari. In realtà il contratto parlava di 1,5 milioni di ettari, mentre la compagnia ecuadoriana, neonata, comprava però quote dagli americani. Come nella Russia di Gogol gli abitanti di Orellana e Sucumbòs sembrano le anime morte del terzo millennio.
“L’Amazzonia- scrivono in apertura le autrici- non è un altro mondo, lontano ed esotico. E’ lo specchio del nostro. Ed è una questione di vita o di morte. Nostra, loro di tutti”.
Questo sinodo dunque ci porta al cuore della riforma di Francesco: rendere la Chiesa plurale per consentirle di promuovere uno sviluppo umano integrale, non uno sviluppo insostenibile, un’ecologia integrale e di prospettare dunque una globalizzazione rispettosa dei popoli e delle loro culture, non uniformante, come dice Bergoglio “sferica”, cioè che ci rende tutti uguali.