Il fascicolo Alpi Hrovatin non si archivia. Oggi è una bella giornata. Per chi ancora crede nella giustizia

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Oggi è una bella giornata. Per chi ancora crede nella giustizia. Per chi non ha mai smesso di cercare. Di chiedere. Di scavare. Per chi si è indignato e per chi ha lottato. Oggi è una bella giornata per tutti.

Il fascicolo Alpi Hrovatin non si archivia. Il gip Andrea Fanelli ha rigettato per la seconda volta la richiesta di archiviazione avanzata dalla procura di Roma e ha disposto nuove indagini. Centottanta giorni per avere quelle risposte che mai sono arrivate. Centottanta giorni per investigare, per interrogare chi mai è stato interrogato. Per arrivare a conoscere chi ha ordinato la morte di Ilaria e Miran. Centottanta giorni per capire da chi siano partiti i depistaggi che prima hanno impedito si facesse chiarezza sul duplice omicidio. Poi hanno portato in carcere un innocente, Hashi Omar Hassan, rinchiuso ingiustamente per 17 anni sulla base di una testimonianza di un somalo, Ahmed Ali Rage detto Gelle, portato in Italia, sentito dalla Digos e dal pm Franco Ionta e poi scappato. A loro disse che Hashi faceva parte di quel commando omicida. Che lui era lì e l’aveva visto. Poi era sparito dall’Italia. Senza presentarsi al processo. Né in primo grado, né in secondo. E Hashi era stato condannato a 26 anni di reclusione. Fine della storia.

Ed è stato grazie al lavoro dei giornalisti, di noi di “Chi l’ha visto?” – che dopo tanti anni abbiamo cercato, trovato e intervistato Gelle – se oggi Hashi è un uomo libero. “Io non c’ero. Gli italiani mi hanno pagato per dire una bugia. Per accusare un innocente. Per far passare quell’agguato come una rapina” disse Gelle ai nostri microfoni.

“Gli italiani”. Chi erano questi italiani che non volevano si indagasse? Che volevano che tutto fosse messo a tacere? Che hanno fatto finire in carcere un innocente pur di tacitare Luciana e Giorgio? Ora il gip chiede di approfondire una serie di punti mai chiariti in tanti – troppi – anni. Come l’identità della misteriosa fonte dell’intelligence che rivelò un “coinvolgimento dell’imprenditore Giancarlo Marocchino nel duplice omicidio e di un traffico di armi”, così si legge in una nota del Sisde. Oppure perché la trascrizione di un’intercettazione importantissima abbia impiegato cinque anni per arrivare al tribunale di Roma da quello di Firenze. “L’hanno uccisa gli italiani” confidava un somalo a un altro. E continuava: “lo sanno tutti che il ragazzo che c’è in prigione è innocente”.

E infine il giudice chiede di acquisire gli atti relativi alla morte del giornalista Mauro Rostagno, ucciso dalla mafia nel 1988. Stava forse indagando su un traffico d’armi? Lo stesso a cui si stavano interessando Ilaria e Miran? Oppure si vuole finalmente chiarire cosa ci facesse un italiano a Bosaso – mandato lì da Francesco Cardella, che proprio con Mauro Rostagno aveva fondato la comunità per recupero di tossicodipendenti “Saman” – proprio nei giorni in cui c’erano Ilaria e Miran.

E’ tempo di fare chiarezza in questa “vicenda segnata da tanti lati oscuri e da errori giudiziari”, scrive il gip. In questo quadro, prosegue “l’approfondimento, condotto senza riserve, degli ulteriori temi di indagine appare essenziale al fine di cercare di dare una risposta alla domanda di giustizia attesa ormai da 25 anni dai familiari delle persone offese e da tutti i cittadini interessati a conoscere la verità”.

Non si archivia. Oggi è una bella giornata. Per tutti. E sarebbe stata una bella giornata anche per Luciana, per quella donna minuta con gli occhi puliti e la voce decisa, per quella madre con una sola ragione di vita. Sapere perché Ilaria, la sua Ilaria, è stata uccisa.


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