Dicembre 2017, sono alla mia settima missione a mare: la seconda su una ONG, la Aquarius di SOS Mediterranee che opera con Medici Senza Frontiere. Siamo all’altezza delle piattaforme petrolifere. In lontananza una motovedetta libica gira vorticosamente intorno ad un gommone con a bordo oltre cento persone: da quella unità che un tempo era della nostra Guardia di Finanza, arriva via radio al comandate dell’ Aquarius l’ordine di tenersi a debita distanza se non si vogliono spiacevoli conseguenze. Da lontano l’equipaggio della nave ONG resta impotente ad osservare questa scena. Invio come ogni giorno il pezzo con il diario del giorno in cui descrivo tutto. Il giorno seguente trovo su Messenger una serie di messaggi da un profilo sospetto. Tra questi messaggi anche un video, risalente ad un anno prima, in cui si mostra il recupero di un barcone da parte della guardia costiera libica: i migranti saranno riportati indietro nei centri di detenzione ufficiali, mentre i due scafisti vengono lasciati andare.
Non ho ben capito quale fosse realmente il messaggio che volevano consegnare da quel profilo ma tutta quella storia mi inquietava. Così al rientro ho denunciato tutto a chi di dovere.
Di certo c’ ‘è che in quel video tra gli uomini in mimetica armati fino ai denti sulla motovedetta libica che prendono i migranti e lasciano andare gli scafisti, c’era anche Abd-al-Rahman Al Mijlad, oggi meglio conosciuto come Al Bija, a capo delle milizie di Zawiya dove si trova uno dei centri di detenzione per migranti, accusato di crimini contro l’umanità, tra i 5 sanzionati dall’ONU e considerato in contatto con i trafficanti ai quali avrebbe rivenduto centinaia di esseri umani recuperati nel Mediterraneo dopo la partenza dalle coste libiche. Di quanto fosse spietato e coinvolto nel traffico di esseri umani, aveva già scritto la reporter Nancy Porsia che in Libia ci era stata più volte prima di vedersi rifiutato il visto dopo le sue inchieste. Ora un altro collega, Nello Scavo, mette in luce la presenza di Bija in Italia nel 2017: per discutere di “accoglienza” al Cara di Mineo e per partecipare ad addestramenti con la nostra guardia costiera, dopo che già di lui si hanno notizie non proprio edificanti.
Non entro nel merito di come sia potuto succedere che un simile personaggio sia stato accolto nel nostro paese in quelle circostanze, chi dovrà rispondere risponderà. Quel che appare chiaro è che attraverso il lavoro di tanti indefessi colleghi si può risalire a storie e documenti sul dramma vissuto da migliaia di esseri umani in Libia che altrimenti resterebbero nascoste. Facendo anche “controlli incrociati” tra quanto raccolto da uno e dall’altro. Succede ad esempio che osservando immagini di repertorio della Reuters e mettendoli a confronto con le riprese sulla nave ONG Sea Watch3, riesco a dimostrare che la storia dei migranti recuperati dalla marina libica poi rivenduti ai trafficanti è vera. Era l’aprile del 2018: da un gommone decine di persone si lanciano a mare alla vista di una motovedetta libica urlando “No Libia”. Il comandante della nave ONG decide di prendere tutti a bordo. Le nostre telecamere riprendono tutto. Anche l’intervista ad Abdullahi, un trentenne etiope, che ci spiega di essersi buttato a mare perché preferiva morire piuttosto che tornare indietro in Libia, dove lo picchiavano ogni giorno, mattina e sera. Ci racconta che per tre volte riesce a farsi mandare i soldi dalla famiglia: per due volte tenta di attraversare il Mediterraneo ma viene sempre riportato indietro nei centri di detenzione ufficiali e poi rivenduto. Che all’interno delle stesse forze militari libiche c’erano persone collegate ai trafficanti.
Tutto già sentito tante altre volte ma non eravamo mai riusciti a provare quanto riferito dai profughi. Tempo dopo, osservando immagini di repertorio girate dall’agenzia Reuters in un centro di detenzione ufficiale vicino Tripoli, vedo Abdullahi in prima fila tra i migranti seduti per terra. Abdullahi deve essere necessariamente uscito dopo da quel centro e messo in mare dai trafficanti. Al suo terzo tentativo è stato soccorso da una nave umanitaria, conteso con altri 90 compagni di viaggio, da una motovedetta libica. Insieme ad Abdullahi c’erano anche Mariah, 7 giorni, e la sua mamma che si lancia a mare e sviene. La bimba viene presa da un uomo, anche lui si getta in mare con la piccola. Una volta a bordo, stremato, la lascia tra le mie braccia. Il dottore di bordo non può darmi retta, c’è gente che ha bisogno di soccorso immediato. “Portala in infermeria, lavala e asciugala” – mi dice. Le ho tolto tre tutine fradicie di dosso prima di trovarla nuda piena di feci e acqua di mare. L’ho lavata e avvolta in una copertina di lana celeste prima di rimetterla nelle mani della mamma che, nel frattempo, si era ripresa. Le lacrime silenziose di quella donna e la mano che ci saluta mentre scende al porto di Catania con Mariah in braccio non le dimenticherò mai. Come non dimenticherò mai il fumo nero della motovedetta che girava intorno al gommone mentre dalla Aquarius si osservava in lontananza la scena. Non sapremo mai cosa ne è stato di loro. Resta da sperare che qualcuno, come Abdullahi, sia sopravvissuto al ritorno in Libia e, all’ennesimo tentativo, sia riuscito ad attraversare il mare.
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