Per comprendere ciò che sta accadendo a Hong Kong, e in particolare ciò che è accaduto oggi, in occasione delle celebrazioni per i settant’anni della Repubblica Popolare cinese, bisogna avvalersi di un saggio di Graham Allison, destinato a diventare un classico della politologia mondiale. Riprendendo un’analisi di Tucidide in merito ai rapporti fra Sparta e Atene, Allison sostiene nel suo libro che la sanguinosa Guerra del Peloponneso sia stata causata dai timori di Sparta per la fioritura di Atene e che altre sedici volte, nel corso della storia degli ultimi cinquecento anni, si siano verificate condizioni analoghe, sfociando, in dodici casi, in conflitti. Sono, dunque, destinate alla guerra anche le superpotenze del nascente bipolarismo sino-americano? Diciamo che la saggezza di Xi Jinping, furba, prepotente, spregiudicata ma non per questo digiuna di quei principi confuciani indispensabili per governare una Nazione grande come un continente, potrebbe fare la differenza. Non altrettanto, purtroppo, si può dire di Trump, in quanto il suo cinismo non è suffragato da un adeguato livello culturale, la sua competenza diplomatica è piuttosto bassa e la sua impulsività potrebbe provocare conseguenze devastanti sullo scacchiere globale.
Scriviamo tutto questo alla luce di una convinzione, ossia che la crisi di Hong Kong, con conseguenti scontri, violenze e manifestazioni ormai quotidiane che in una giornata simbolo come quella odierna hanno raggiunto (si spera) l’apice, sia ormai una sorta di guerra per procura fra la potenza emergente e quella declinante ma per nulla rassegnata all’idea di dover presto rinunciare alla propria egemonia sul mondo.
Non arriviamo a sostenere che i manifestanti siano strumentalizzati da una potenza straniera, anche perché ne abbiamo sempre appoggiato la battaglia e difeso gli ideali e non intendiamo retrocedere dalle nostre convinzioni. Fatto sta che l’atteggiamento di sfida di Pechino, il non voler cedere al buonsenso e la repressione feroce attuata tramite una figura sbiadita e incapace di qualsivoglia forma di empatia come Carrie Lam appare più un messaggio inviato a un avversario esterno che un segnale rivolto alla popolazione di un lembo di terra che non può in alcun modo costituire un pericolo per il Dragone arrembante.
Allo stesso modo, i toni usati da Xi Jinping durante la parata militare, il guanto di sfida lanciato attraverso l’esposizione di tutto l’arsenale militare a sua disposizione e la posa fiera e volutamente imperiale adottata sono altrettanti simboli di una Cina che non vuole limitarsi a tornare grande, come ribadisce a ogni piè sospinto l’attuale inquilino della Casa Bianca, bensì spingersi al di là dei suoi limiti, oltre ogni aspettativa, con in mente la chiara intenzione di far sì che il Ventunesimo sia il secolo cinese.
Hong Kong rischia, pertanto, di essere un mero palcoscenico, il primo, di una contesa che lo riguarda solamente in parte. Dall’esito della prova di forza in atto dipenderanno sia le Presidenziali americane (il fatto che in Cina Xi sia stato nominato presidente a vita è tutt’altro che un dettaglio) sia i futuri equilibri di un mondo sull’orlo dell’abisso.
Iscriviti alla Newsletter di Articolo21