Il lungo film del regista sudcoreano Lee Chang-dong traduce, con un ritmo lentissimo, attraverso lo sguardo sempre più incapace di comprendere la realtà del giovane Jong-su (l’attore Yoo Ah-in), l’inquietudine di una società involuta, superficiale, scollata e confusa. La fotografia di Hong Kyeong-pyo, curata ed elegante, sceglie colori privi di saturazione dove un chiarore diffuso avvolge le scene in una nebbia pulviscolare e lattiginosa che pone ogni fotogramma sottotono, quasi ci servisse una rassicurazione in merito all’idea di Chang-dong, dopo un’assenza dal cinema di nove anni, sulla lateralità, quasi astratta, delle sue scelte.
Se ci si aspetta di cogliere il senso del film dai dialoghi, si rimane immediatamente interdetti di fronte alla indeterminatezza della quasi totalità delle parole che disseminano il tessuto narrativo ora di luoghi comuni ora di affermazioni prive di qualunque empatia. Come priva di empatia è la recitazione che si traduce in una freddezza manifesta sin dalla prima, straniante, scena di sesso: il corpo sensuale della protagonista (Jun Jung-seo) si contrappone alla desolante assenza di tensione erotica che risolve in tenera poesia la mediocrità. Un piano sequenza senza pathos che introduce con violenza – ma ce ne renderemo conto solo in seguito – il film, fino alla fine, al tema che regge la trama, sottile e inconcludente a prima vista eppure così coerente e lucida. Meccanica, se vogliamo trovare una definizione che comunque non risolve la complessità del racconto, basata su un breve romanzo dello scrittore giapponese Murakami.
Quello che trasforma la storia, disseminata di indizi impossibili da cogliere se non a ritroso, in un inquietante incubo è proprio il desiderio del regista di non dirci nulla ma di costringerci, man mano, a farci un’idea che non potremo mai essere certi sia quella corretta.
“Che cosa è la metafora” chiede il misterioso Ben – interpretato da un affettato Steven Yeun – a Jong Su, scrittore che non ha ancora scritto nulla, per fornire, con inaspettata crudele ironia, una labile chiave di lettura. La metafora è la “sostituzione di un termine proprio con uno figurato, in seguito a una trasposizione simbolica di immagini” e forse in questa definizione di lessico si concentra l’intenzione del regista. Mostrarci che l’assenza, prima quella del gatto e poi quella della giovane Hae-mi, è solo il vuoto che giustifica la materia, che scatena il formularsi di un sistema di pensiero.
Il film è scandito da una serie di risvegli del protagonista richiamato dal sonno spesso con il suono di una telefonata, telefonata muta che a un certo punto diviene la reificazione di un’assenza incomprensibile: definitivamente priva di spiegazione. Come indecifrabili – tutto resta nel vago – sono le motivazioni dei personaggi che il regista segue sempre attraverso gli occhi del protagonista, se non in alcune scene dove indugia comunque il dubbio di non trovarci di fronte all’accadere ma semplicemente ad una interpretazione – la sua scrittura che finalmente prende corpo? – di Jong Su.
Il film non dà punti di riferimento: la vaghezza che all’inizio ci porta in un torpore spaesante, il torpore dell’assideramento, forse anche questo una metafora, infine si risolve con un rogo che pare dover purificare, materializzando il senso di sacralità spesso accennato. Prima è l’epifania di un raggio di luce che solo per un istante può essere colto nel minuscolo appartamento di Hae-mi e, che proprio nella scena di amplesso, pare illuminare il suo seno, poi è la danza dei boscimani, ridicola eppure potente e arcaica, ancora dalla giovane interpretata in mezzo all’indifferenza di amici distratti che battono le mani segnando il ritmo dei suoi passi. Infine è il volo degli uccelli che Hae-mi mima nell’ultima scena in cui appare. Da quel volo tutto si sconvolge fino al violento e inaspettato − solo per chi non vuole credere alla necessità rituale del sacrificio − finale: tutto avviene nel silenzio di campi che si estendono al limitare della città, anch’essa muta e sorda. In appartamenti inabitabili e disordinati oppure eleganti e alla moda ma ugualmente ostili. Un sobborgo disseminato di serre incendiate e laghetti, di pozzi fantasma, bagnato da un nevischio gelido (di nuovo la stessa metafora): un non luogo dove chiunque può svanire nel nulla senza che sia reclamato, perché in fondo nessuno può essere certo che una esistenza così sottile e inutile sia davvero reale, nemmeno se una dichiarazione d’amore quasi taciuta o detta per interposta persona tradotta in un urlo disperato, soffocato dall’indifferenza, ne colga per un attimo la possibilità o magari ne decreti la morte.
Burning – L’amore brucia | |
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Titolo originale |
버닝 |
Paese di produzione |
Corea del Sud |
Anno |
2018 |
Durata |
148 min |
Genere |
drammatico |
Regia |
Lee Chang-dong |
Soggetto |
Haruki Murakami |
Sceneggiatura |
Lee Chang-dong e Oh Jung-mi |
Distribuzione in italiano |
Tucker Film |
Fotografia |
Hong Kyeong-pyo |
Montaggio |
Kim Hyeon e Kim Da-won |
Musiche |
Mowg |
Scenografia |
Shin Jum-hee |
Interpreti e personaggi | |
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