Molte cose sono cambiate negli ultimi dieci anni, ahinoi quasi tutte in peggio. Fatto sta che la tragica vicenda di Stefano Cucchi, il trentunenne geometra romano trovato in possesso di alcuni grammi di hashish e cocaina e per questo portato in caserma e lì pestato a sangue da alcuni agenti, causandogli danni che in pochi giorni lo hanno condotto alla morte, ha risvegliato le coscienze assopite della maggior parte di noi circa il tema dei diritti umani.
Dieci anni e ne abbiamo sentiti di insulti, farneticazioni e affermazioni vergognose da parte di alcuni esponenti politici, per non parlare di certi colleghi, di quella frangia della destra che su Cucchi ha rivelato la sua vera natura. Una natura che, purtroppo per il nostro Paese, ha poco a che vedere con la tradizione liberale e diversi punti in comune, invece, con paesi in cui, di fatto, non esiste l’habeas corpus e i diritti umani non sono tenuti in nessuna considerazione.
Il caso Cucchi, come ben sa la sorella Ilaria, verso cui nutro sentimenti di profonda stima e sincera amicizia, ha avuto il merito di fare chiarezza su numerosi aspetti del nostro vivere civile. Il che mi induce a dire che la morte straziante di un ragazzo che mai sarebbe dovuto finire in carcere e, meno che mai, avrebbe dovuto subire lo scempio che ha subito, per fortuna, non è stata vana. Si è aperto, infatti, in Italia un dibattito sul ruolo e sulla funzione delle carceri e di chi vi lavora, sul senso di determinate pene detentive e sull’ingiustizia di molte di esse. Ci si è scontrati sul punto cruciale della prigione intesa da alcuni, i soliti, i già menzionati campioni del sovranismo all’amatriciana, alla stregua di una discarica sociale dove gettare gli scarti, i deboli, gli ultimi, coloro che non ce la fanno e per questo, secondo la vulgata corrente, sapientemente alimentata, non avrebbero diritto né alla redenzione né alla giustizia nel senso letterale del termine.
Non c’è dubbio che Stefano Cucchi, nel corso della sua breve vita, abbia commesso degli errori, che abbia incontrato il gorgo pericoloso della droga e della dipendenza e che non sia riuscito a uscirne. Tuttavia, non c’è dubbio che è proprio per persone così che è necessario prevedere misure alternative al carcere, finanziando adeguatamente le comunità di recupero e restituendo alla piena cittadinanza chi ha commesso degli sbagli ma non per questo merita di essere abbandonato a se stesso o colpito in eterno da un marchio di infamia.
Oltretutto, la tragedia di Cucchi ci ha permesso di conoscere una donna, Ilaria per l’appunto, che non ha mai elevato il fratello a eroe moderno né gli ha lesinato critiche, anche severe e immagino per lei quanto dolorose, preferendo, al contrario, farne un simbolo di lotta collettiva per una certa idea di società. Una società, quella per cui si batte Ilaria, e noi al suo fianco, nella quale nessuno sia lasciato indietro, nella quale un cittadino nelle mani dello Stato venga rispettato quanto e più degli altri, nella quale la giustizia sia giustizia e non faida medievale, nella quale il carcere abbia la funzione costituzionale di luogo di rieducazione e non di buco nero senza via d’uscita, nella quale la logica della vendetta che si è impadronita del nostro vivere civile venga contrastata con la massima fermezza e, infine, sconfitta. E ci ha consentito di conoscere anche un uomo, l’avvocato Fabio Anselmo, che della passione per la lotta di Ilaria ne ha fatto una ragione di vita, riportando l’umanità e la dignità indispensabili nelle aule di un tribunale in cui, in precedenza, si era discusso in termini burocratici e lesivi della memoria di un ragazzo assassinato per la sola colpa di non essere nessuno.
Dieci anni dopo dobbiamo dire grazie a Ilaria per aver reso qualcuno tanti altri nessuno come suo fratello, per averli fatti sentire meno soli, per aver ricordato a tutti noi il ruolo costituzionale della politica e della magistratura, per aver fatto uscire dal silenzio il grido di rivalsa di quanti hanno subito per anni ogni sorta di angheria, per aver scelto di vincere sempre e comunque nella legalità, senza populismo, senza vittimismo, senza autocommiserazione, credendo nelle istituzioni e affidandosi a un iter che ha favorito la scoperta dei responsabili e dei depistatori e aperto una discussione sui corpi dello Stato che non si vedeva dai tempi del G8 di Genova.
Ilaria ha vinto perché non ha mai cercato di strumentalizzare il dramma del fratello. E Stefano oggi può riposare se non in pace, quanto meno con un minimo di serenità.
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