Parliamo un po’ di Cesare Zavattini, scomparso trent’anni fa all’età di ottantasette anni, dopo una vita trascorsa a dispensare il proprio genio in un mondo del cinema che dopo di lui non è stato più lo stesso. Esiste, infatti, un prima e un dopo, soprattutto se consideriamo la sua fondamentale importanza nella nascita e nell’affermazione del neorealismo, ossia del genere che nel dopoguerra rese grande il nostro cinema, conferendogli le caratteristiche per cui è tuttora apprezzato ovunque nel mondo.
Tuttavia, non c’è solo la potenza espressiva nella creatività di questo italiano da esportazione. C’è il rapporto con De Sica e Visconti, c’è la fondazione dell’AAMOD (l’Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico), c’è la sua saggezza nel mescolare i generi, c’è la denuncia e il riso amaro, l’ironia feroce e la volontà di battersi per un’altra idea di società e di mondo, anche attraverso una carrellata di sconfitti, di rassegnati, di illusi, di disperati senza alcuna possibilità di riscatto e di emarginati che, invece, ci credono ancora.
Zavattini ha sempre fustigato i costumi, ha sempre immaginato un diverso modo di essere, ha sempre amato profondamente le persone e ha saputo realizzare il miracolo di un cinema colto senza mai scadere nella noia o nella banalità.
Ha attraversato quasi un secolo, andandosene poche settimane prima dell’abbattimento del Muro di Berlino, dopo aver conosciuto da vicino i diluvi e le ideologie assassine del Novecento e aver trascorso la seconda parte della propria vita a cercare di rimediare agli errori che la sua generazione aveva commesso nella prima.
Ha conosciuto l’Italietta rurale e ingenua che si lasciò abbindolare dal regime e l’Italia degli sciuscià umiliati da una duplice disfatta, l’Italia della rinascita e del miracolo economico, l’Italia in cui dilagava la voglia di vivere e l’amara Italia della fine delle speranze e delle illusioni. Ha lottato fino all’ultimo giormo, con umiltà e coraggio, determinazione e impegno, con la passione che solo i grandi emiliani sanno mettere nelle cose.
Il 13 ottobre 1989 ci disse, dunque, addio un uomo ineguagliabile, uno sceneggiatore che non può avere eredi, un demiurgo, un intellettuale di livello mondiale e, aspetto più importante di tutti, un sognatore concreto, capace di coniugare il suo spirito visionario con il realismo di chi sa dipingere atmosfere e costruire, al contempo, un nuovo immaginario.
Lo ricordiamo nel giorno in cui diciamo addio a un altro straordinario interprete del cinema italiano come Carlo Croccolo, scomparso all’età di novantadue anni, esponente della scuola napoletana di Totò e di Eduardo ma capace di reinventarsi fino alla fine, con l’eclettismo e la curiosità tipica di chi è maestro nell’ingannare l’anagrafe. Valeva anche per Zavattini e ora lassù si prendono per mano.
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