BASTA VIOLENZA SULLE DONNE - 25 NOVEMBRE TUTTI I GIORNI

Catalogna. Riesplodono le proteste in piazza. Il 10 novembre elezioni in Spagna. Una sfida per la democrazia

0 0

La sentenza del processo agli indipendentisti catalani ha fatto riesplodere le proteste di piazza. Dalla Spagna sono tornate le immagini di violenza che caratterizzarono il primo ottobre 2017, quando il governo scelse tentare di impedire il “referendum” autogestito, malgrado l’illegalizzazione del Tribunale costituzionale lo avesse ormai reso nulla più che un atto politico simbolico.

Prima di parlare della sentenza tocca però guardare rapidamente alla cronaca. Le proteste, con manifestazioni e blocchi di strade e autostrade, sono scattate a poche ore dall’emissione della sentenza in forma spontanea, per prolungarsi in maniera organizzata. A lanciare le iniziative c’è una piattaforma, Tsunami Democràtic, che attraverso una app fornisce informazioni, coordinazione e indicazione degli obiettivi ai manifestanti. Gli incidenti di ieri presentano il conto di 72 agenti feriti, 51 arresti e un numero di feriti tra i manifestanti che, guardando ai registri dei pronto soccorso, non è inferiore ai 130, di cui almeno due gravi.

Le cariche della polizia sono state dure, a volte innecessarie, come quando la concentrazione davanti al palazzo del governo di Barcellona si stava sciogliendo, con alcuni gravi episodi, come le disinvolte gimcane coi cellulari per disperdere la folla nelle quali un uomo è stato travolto, fortunatamente senza gravi conseguenze. In particolare le proteste all’aeroporto di Barcellona, un modo di internazionalizzare la protesta sulla scorta dell’esperienza di Hong Kong, si chiudono col drammatico bilancio di un ragazzo che ha perso un occhio, probabilmente per l’impatto di un proiettile di gomma, in uso alle forze di sicurezza nazionali, o di foam, munizione “non letale” in uso alla polizia catalana in seguito al bando da parte della Generalitat delle pallottole di gomma, e di un altro che ha perso un testicolo per una manganellata. Tenendo conto che, a differenza del 2017 quando il carattere pacifico delle proteste fu evidente, l’azione dei manifestanti è stata più aggressiva, il bilancio sarebbe potuto essere peggiore, il che suggerisce la volontà del ministro dell’Interno di non eccedere nella repressione violenta, anche guardando all’opinione pubblica internazionale. Nella notte a Barcellona numerosi incendi hanno richiesto l’intervento dei pompieri e il crescere del livello di violenza degli scontri ha spinto la sindaca, Ada Colau, a fare un richiamo alla calma.

Stamane il capo del governo, Pedro Sánchez, ha organizzato incontri d’urgenza coi leader delle altre formazioni, Pablo Casado del Partido popular, Albert Rivera di Ciudadanos e Pablo Iglesias di Unidas Podemos, oltre a chiedere all’indipendentismo una chiara condanna della violenza. Immediata la risposta di Oriol Junqueras, il principale condannato del processo, che ha emesso un tweet nel quale dice che “la violenza non ci rappresenta”, slogan ripreso successivamente da altri rappresentanti dell’indipendentismo. Un fronte nel quale si evidenziano divisioni, a partire dal duro richiamo di Gabriel Rufián, capogruppo alla Camera del partito di Junqueras, Esquerra republicana de Catalunya (Erc), al presidente della Generalitat, Quim Torra, indipendente ma vicinissimo al leader fuggito all’estero Carles Puigdemont, nel quale chiede che non ci sia nessuna ambiguità nella condanna della violenza, sottolineando come “mai” nessun presidente catalano abbia avallato simili comportamenti.

L’elevazione del livello dello scontro di piazza e i diversi allarmi circa la presenza di “infiltrati violenti” nei cortei da parte di sindaci indipendentisti, fanno pensare che il meccanismo col quale i protagonisti della deriva indipendentista controllavano la piazza – attraverso la disciplinata militanza dei membri dei partiti e delle associazioni civiche indipendentiste, Asemblea nacional catalana e Òmnium cultural – non funzioni più come prima; che frustrazione, mancanza di prospettive, divisioni, senso d’impotenza, presenza di nuovi attori sulla scena e la reazione emotiva alle dure condanne, concorrano nel rendere più difficile alle leadership indipendentiste incanalare le proteste.

Torniamo dunque alla sentenza, emessa la mattina di ieri ma anticipata dal quotidiano El País già sabato, in quello che è stato letto come un tentativo, evidentemente fallito, di farne decantare l’impatto.

Il dispositivo accoglie la tesi dell’Avvocatura di stato, vi fu sedizione, ma respinge il teorema della Procura, la ribellione, punibile con 25 anni, e emette condanne, da 9 a 13 anni. Sono stati giudicati i fatti del settembre e ottobre 2017, dalla preparazione del cosiddetto referendum di autodeterminazione del primo ottobre alla supposta dichiarazione unilaterale d’indipendenza (Dui) del 27 ottobre. Le accuse erano di ribellione, sedizione, malversazione (l’uso di risorse pubbliche per le condotte illegali) e disobbedienza (il mancato adempimento a ordini giudiziari o amministrativi). La Ribellione prevede l’uso della violenza pianificata allo scopo di sovvertire l’ordine costituzionale o modificare la struttura dello stato – venne precedentemente contestata a Antonio Tejero e Jaime Milans del Bosch, condannati a trent’anni, per il tentato colpo di stato del 1981; la sedizione implica il verificarsi di violenze e tumulti allo scopo di impedire l’applicazione di norme o l’esercizio delle funzioni delle pubbliche autorità, cioè di ostacolare lo stato diritto. Nove dei 13 accusati sono da due anni in carcere preventivo, 3 in libertà provvisoria.

La pena più alta va a Oriol Junqueras, ex vice presidente del governo catalano, condannato a 13 anni di carcere per sedizione e malversazione e condannato a 13 anni.

Stessi reati ma condanna a 12 anni per gli ex membri del govern Jordi Turull, Raül Romeva e Dolors Bassa. Carme Forcadell, ex presidente del Parlamento catalano, è stata condannata a 11 anni e sei mesi per la sola sedizione, come Joaquim Forn e Josep Rull, anch’essi ex ministri (consiglieri) del governo, che prendono 10 anni e mezzo di carcere; sedizione e 9 anni per Jordi Sànchez e Jordi Cuixart, ex presidenti delle associazioni civiche indipendentiste Asemblea nacional catalana e Òmnium cultural.

Più miti le pene per gli ex consiglieri in libertà provvisoria, Santi Vila, Carles Mundó e Meritxell Borràs, condannati solo per l’autoproclamato reato di disobbedienza a un anno e otto mesi di inabilitazione e dieci mesi di multa, ovverosia la possibilità di non andare in carcere pagando 200 euro per ogni giorno di condanna.

Una sentenza considerata da molti analisti di “mediazione” rispetto alla spropositata accusa di ribellione. Nell’accogliere le tesi dell’Avvocatura, organo vicino alle sensibilità e esigenze del governo, molti hanno visto la volontà di lasciare alla politica lo spazio per riprendere nelle sue mani la questione catalana, colpevolmente lasciata alla giustizia.

Ma la speranza che questa potesse costituire una svolta per far tornare il conflitto nell’alveo della politica si scontra con un contesto “civile” ormai molto degradato. L’utilizzo irresponsabile da parte della politica della conflittualità nazionalista, in Catalogna come a Madrid, ha trasformato un conflitto che si sarebbe dovuto risolvere sul tavolo del dialogo nella più grave crisi istituzionale della storia recente di Spagna (https://www.articolo21.org/2017/09/catalogna-e-madrid-un-pericoloso-confronto-fra-nazionalismi/). Ogni atto politico e provvedimento legislativo ha contribuito a rendere più inclinato quel piano che porta dal confronto politico allo scontro istituzionale (https://www.articolo21.org/2017/10/rajoy-propone-un-duro-commisariamento-della-catalogna/). E bisogna constatare come la stampa – quasi unanimemente e con eccezioni soprattutto al di fuori dei media tradizionali – anziché richiamare partiti e leader alle loro responsabilità verso il congiunto della società, abbia scelto di schierarsi con l’uno o l’altro fronte, preferendo all’analisi rigorosa dei fatti il farsi portavoce delle avverse propagande.

In questo contesto si arriva a una sentenza nella quale il riconoscimento del reato di sedizione costituisce un pericoloso vulnus dell’esercizio del diritto alla libera espressione in democrazia. Convertire atti concreti, come il richiamo a protestare contro una perquisizione in corso o l’organizzazione di una consultazione già giudicata illegale e vietata, che costituirebbero normalmente reati di disobbedienza all’autorità o di resistenza, in azioni sediziose volte a impedire l’applicazione dello stato di diritto, sancisce una forzatura pericolosa. In linea, occorre dire, con quanto accaduto nell’ultimo decennio che ha conosciuto un progressivo indurimento della legislazione sull’esercizio dei diritti politici e che ha limitato fino a criminalizzare le forme di dissenso. Una legislazione di carattere emergenziale che mal si incastra negli standard occidentali – si pensi alla sprezzante rapidità con cui la giustizia tedesca ha respinto la richiesta di estradizione di Carles Puigdemont, giudicando inconsistente la formulazione dell’accusa di ribellione – e che ha sollevato i dubbi di autorevoli enti internazionali, nelle Nazioni unite e nell’Unione europea (ne abbiamo scritto qui: https://www.articolo21.org/2015/07/approvata-la-ley-mordaza-legge-museruola-in-spagna-non-si-potra-piu-protestare/).

Probabilmente, dal Tribunale supremo non poteva giungere una sentenza diversa, per quanto la presa in carico del procedimento già significasse un diverso approccio rispetto a quello impostato dall’Audiencia nacional che aveva aperto il procedimento per reati punibili fino a 50 anni di carcere.

Spetterà ora al Tribunale Costituzionale, al quale certamente adiranno i condannati, vedere se l’interpretazione del Supremo rispetta i diritti individuali e collettivi sanciti dalla Costituzione, e dalle norme e trattati internazionali, mettendo quindi anche in discussione parte della legislazione recente in materia.

E spetta alla politica uno scatto che consenta di riportare nella lampada il genio incontrollabile della divisione, quel “noi” e “loro” che costituisce il lessico della Spagna eterna, incapace di assumere nell’unità le proprie diversità. Perché sarebbe un inganno pensare che la crisi catalana sia solo una questione “bilaterale”. Si tratta di un sintomo, il più grave, di una più ampia crisi della democrazia spagnola, quella Spagna delle autonomie con la quale la democrazia rispose al carattere plurinazionale dello stato spagnolo. Una crisi alla quale nessuno sembra saper dare risposta. Stamane sono ricominciate le proteste, con marce di migliai di persone che bloccano le principali vie di comunicazione catalane. Si aspetta che arrivi la notte, sperando che non sia altra occasione di violenza. Perché che, a Madrid come in Catalogna, qualcuno speri nel grave incidente per blindare nell’emergenza lo status quo e trarne profitto immediato è un dubbio inquietante che non si può escludere.

La Spagna andrà al voto il dieci novembre. Delusione, rabbia, disincanto e frustrazione, sono comuni a tutti gli elettori che si vedono chiamati alle urne per la quarta volta in quattro anni, in particolare di quelli di centrosinistra che non capiscono perché i partiti non abbiano portato in fondo il chiaro mandato che gli era stato consegnato. Sentimenti dominanti in Catalogna, dove si incrociano il fallimento dell’escalation indipendentista e la percezione che non ci siano le condizioni e la volontà politica per trovare una soluzione, nella regione e nel paese. Una miscela potenzialmente pericolosa. Una sfida per la democrazia, i partiti e la società intera.


Iscriviti alla Newsletter di Articolo21