Uno Stato è democratico quando i bisogni essenziali diventano diritti. Non soffrire per malattia oltre il limite della sopportabilità è un bisogno essenziale, quindi deve diventare un diritto poter scegliere di morire. La Corte Costituzionale – ponendo giuste condizioni – è arrivata a riconoscere non penalmente perseguibile il “suicidio assistito”.
L’intera vicenda ruota su un punto cruciale: chi decide il limite di sopportabilità di una patologia, oltre il quale la sofferenza della morte è più lieve della sofferenza della vita? Qui i giudizi si dividono. I proibizionisti dicono che uomini in buona salute posso giudicare la “sopportabilità” della tortura della malattia meglio di chi ne è sconvolto. Chi si batte invece per il suicidio assistito muove dalla considerazione che nessuno sforzo empatico possa simulare in un sano una sofferenza così intensa da far desiderare la morte; e quindi l’unico giudice affidabile per decidere tra l’istinto alla vita e il desiderio di tregua dal dolore sia il sofferente.
Se tutto è così lineare, perché questa disputa non si risolve nel rispetto della volontà personale? Per me, qui entra in azione la religione cattolica, di cui è intrisa la nostra cultura. E soprattutto la crocefissione, la morte lenta più dolorosa inflitta al Cristo-uomo. Come se fosse stata una scelta e non un crudele supplizio ingiustamente subìto. Così il dolore fisico è diventato sacro. E chi rifiuta il “dono di dolore” oltraggia il donatore. C’è dell’aberrazione in questa visione religiosa, che richiama i sacrifici umani graditi a un dio pagano che si compiace della sofferenza dei suoi adoratori.
Da credente, rifiuto questo dio paganizzato. Da cittadino, pretendo il suicido assistito, come diritto estremo all’incolumità personale.
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