Per più di tre anni da irregolare in Turchia, non ci si aspetterebbe che Hassan (giovane professionista siriano che nel 2016 ha affrontato un contenzioso drammatico raccontato qui) sia comunque riuscito ad avviare la sua attività agli inizi del 2018, nell’industria dei trapianti. Si può dire che sia diventato diretto competitor del suo precedente capo e afferma con orgoglio di riuscire a fatturare circa 12.000€ al mese. Un recente report del TEPAV registra la fondazione di almeno 10.000 piccole aziende siriane in Turchia dal 2011, quasi tutte gestite da imprenditori con una qualifica universitaria, il cui 70% non ha nessuna intenzione di tornare in Siria neppure a conflitto terminato. “Buona parte dei miei guadagni vanno alla mia famiglia. Mia madre è una casalinga, mio padre è pensionato, mia sorella ha una laurea in architettura, ma non l’ha mai esercitata. Gli mando soprattutto delle medicine che ormai sono irreperibili in Siria”.
Neanche Hassan ha mai pensato di tornare: “Il mio aspetto fisico non mi ha mai aiutato” dice ridendo e toccandosi l’orecchino che sfoggia sul lobo sinistro, per me niente di trascendentale. Le docce comuni senza alcuna suddivisione o la razione di cibo lanciata sul pavimento del carcere del Göç İdaresi non hanno suscitato quasi alcun tipo di reazione in un ragazzo che da adolescente aveva già subito 15 giorni di soprusi per aver ascoltato dell’heavy metal.
Gli chiedo di spiegarmi meglio cosa intenda, mi racconta che ai tempi dell’università aveva iniziato a produrre delle t-shirt con le immagini delle band che lui e i suoi amici ascoltavano, arrivando ad esportarle fino in Turchia. La polizia lo fermò sequestrando i borsoni pieni di magliette pensando fossero pieni di droga. Lo bendarono e portarono fino a Damasco, gli ruppero un braccio, gli tolsero le unghie e gli diedero patate marce crude da mangiare a morsi per non morire di fame. “Fu quello il momento esatto in cui decisi che avrei continuato a studiare e dedicato la mia intera vita per andarmene dalla Siria.”
Oggi Hassan ha un regolare contratto d’affitto per un appartamento nel distretto di Beyoğlu, ad Istanbul, ha nuovamente un conto in banca, un’assicurazione sanitaria, ma sulla carta non esiste, sulla carta avrebbe dovuto lasciare il Paese molto tempo fa. “In Turchia da una parte ci sono le regole dall’altra c’è la realtà. Sono sempre stato consapevole della pericolosità della mia situazione, ma ora che negli ultimi mesi i controlli verso i siriani si sono intensificati e molti sono stati rispediti in Siria anche senza una motivazione, sono preoccupato. Poche settimane fa un amico è sceso al chiosco sotto casa per comprare da mangiare, portandosi dietro pochi spiccioli e lasciando a casa il documento di riconoscimento. L’hanno preso e spedito in un campo rifugiati a Kilis in attesa della deportazione. È rimasto lì per un mese e abbiamo mobilitato chiunque per fargli consegnare il permesso di soggiorno che aveva lasciato a casa, nel portafogli.” Hassan le ha pensate tutte. Ha contattato più volte l’UNHCR, ma vista la sua condizione anche dal punto di vista legale, ottenere la protezione adesso è pura utopia. Il processo con l’ex datore di lavoro, infatti, è ancora in corso. Sempre nel 2018 però Hassan ha incontrato la sua attuale compagna, per metà tedesca per metà turca, con cui presto convolerà a nozze. “Dopo di che chiederò la riconciliazione familiare e la raggiungerò in Germania. È la soluzione migliore, anche se mi pesa. Ci amiamo, ma non avrei mai pensato di sposarla dopo un anno e non voglio trascinarla nei miei pasticci. Non voglio fare nulla di male, mentre la Turchia di male me ne ha fatto tanto, devo andare via da qui”, mi dice mentre mangiamo in una locanda, circondati da poliziotti che come noi sono in pausa pranzo.
Capisce che in questo momento ho paura per lui, “ho imparato a fregarmene di tutto”, mi sussurra ridendo. “Se la paura di penetra sotto la pelle, non sei neanche più in grado di mangiare. Noi siriani in Turchia siamo come cibo per i gatti di Cihangir. Ti miagolano attorno solo quando sanno che hai una busta piena di crocchette per sfamarli. Qui nessuno ha più bisogno di noi.”