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San Siro, in morte di una leggenda

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E così vai te ne vai, caro vecchio San Siro dei nostri sogni e dei nostri ricordi, caro stadio avvolto dalla nebbia in cui “Maldini liberava in abito da sera” e “Trapattoni rischiava la galera” mentre “il Diavolo saettava”, “Rivera illuminava l’area” e la panchina di Rocco “sembrava una trincea prussiana”.
Te ne vai, caro vecchio cuore rossonero e nerazzurro, tu che hai visto Suárez architettare geometrie degne di Euclide e Mazzola affermarsi in nome di papà Valentino, mentre Corso regalava magie con le sue punizioni battute a foglia morta ed Herrera portava con sé quel vento caliente della natia Argentina, rivelandosi ben prima di Mourinho un antipatico di successo.
Addio, caro San Siro delle nostre speranze, Scala del calcio e simbolo di una Milano, di un’Italia e di un mondo che non ci sono più.
Addio, a te che hai visto trionfi e ammirato campioni d’ogni sorta, a te che hai ospitato memorabili sfide della Nazionale, a te che sei stato intitolato a un fuoriclasse, Meazza, che più milanese di così non si sarebbe potuto, a te che avevi un’anima cosmopolita pur mantenendo un’identità fortissimamente italiana.
Addio, ultimo lembo del Novecento che ancora resisteva alla vis rottamatoria che ha investito ogni ambito della società.
Addio, testimone del tempo, specchio di una Milano colta, socialista, innamorata dell’arte e della musica, del grande giornalismo e del panettone.
Addio, Milano che cresceva ed era davvero la capitale morale, Milano tragica travolta da piazza Fontana, Milano in declino con troppi nani e troppe ballerine, Milano berlusconiana con tutti i suoi vizi, Milano della borghesia illuminata, diremmo quasi morattiana, che la domenica si recava allo stadio in bicicletta e aveva la sobrietà di chi la ricchezza l’ha saputa costruire e meritare.
Ogni volta che guardo San Siro, mi sembra di avere davanti un libro di storia, una piramide che ha attraversato un secolo, un miracolo capace di coniugare il “baùscia” e il “casciavit”, l’industriale e l’operaio e di far si che, al netto della lotta di classe che un tempo era aspra e anche intrisa di sangue, almeno per novanta minuti potessero coesistere.
Penso all’idea di abbattere San Siro e mi domando cosa ne scriverebbe Gianni Brera che su quegli spalti è diventato un mito, che da quegli spalti ha vergato alcune fra le pagine più belle della sua arte narrativa, che di quella poesia è stato parte non meno dei giocatori in campo.
Zanetti, Maldini, Baresi, Van Basten, Ronaldo e molti altri ancora: San Siro aveva resistito anche alla Terza via, alla crisi della sinistra, alla trasformazione della Capitale morale in emblema di una destra alquanto discutibile, al liberismo arrembante e a un cambio di secolo funestato da mille nubi e sconvolto per sempre dagli attentati di New York in un maledetto martedì di settembre. Poi sono arrivati i capitali stranieri, quelli senza storia, senza valori, senza alcun rispetto per ciò che è stato e ciò che sarà. Capitali barbari, ingenti e privi di ideali, del tutto sconnessi dall’anima signorile e dolente di una città capace, a modo suo, di essere bella e persino accogliente. Capitali spietati, figli di una globalizzazione sbagliata e disumana, per lo più antidemocratica, feroce, irrispettosa, globale non nel senso di un positivo e auspicabile cosmopolitismo ma nel senso di una tendenza a essere apolidi, senza cuore e interessati unicamente a se stessi e al proprio arricchimento.
Non poteva resistere alla deriva di questo secolo che cerca di affrancarsi dal precedente non trovando una propria strada ma, semplicemente, rinnegandolo e calpestandone la memoria. E così, lo stadio che sarebbe potuto diventare la casa dei giovani campioni di Inter e Milan, delle squadre femminili, della Nazionale e del rugby, senza per questo venir meno al proprio ruolo di museo e magari anche a una necessaria funzione amministrativa, fra qualche anno non esisterà più.
Lo stadio di Gren, Liedholm, Nordahl, di Lorenzi e Skoglund, di Angelillo e dei primi successi internazionali del nostro Paese, lo stadio in cui Beppe Viola andò all’università dello sport e della vita, fino a parlare di “derbycidio” a proposito di una stracittadina alquanto indecorosa, quello stadio cadrà sotto i colpi di una falsa modernità.
E noi, quando questo ragazzo classe 1926 ci avrà detto addio, avvolti in una malinconia che nemmeno l’arte di Jannacci potrebbe descrivere, commenteremo alla maniera del grande Beppe: quelli che… da bambini si sentivano a San Siro anche se giocavano all’oratorio.

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