Il 31 marzo 2015 è entrata in vigore la Legge 81/2014 che ha sancito la definitiva chiusura dei rimanenti sei Ospedali Psichiatrici Giudiziari (OPG) ancora attivi in Italia. La medesima Legge stabilisce il nuovo assetto assistenziale prevedendo la messa in funzione di strutture alternative, chiamate REMS (Residenze per Emissione delle Misure di Sicurezza). Cambio di nome ma, sopratutto, inversione di rotta. Le parole chiave ora dovrebbero essere approccio curativo-riabilitativo.
Il condizionale però in questi casi rimane quasi un obbligo.
In un lungo e articolato contributo per rivistadipsichiatria.it si può leggere un’analisi, dettagliata e articolata, delle principali obiezioni e criticità inerenti le modifiche apportate dalla nuova Legge e l’istituzione delle REMS.
- Mancata riforma del Codice penale.
- Equazione ritenuta non corretta tra infermità mentale, malattia mentale e pericolosità sociale.
- Ritardi nella costruzione delle REMS e ricorso a strutture residenziali alternative.
- Confini incerti della responsabilità professionale del personale incaricato.
L’opinione diffusa riguardo gli OPG è ben nota a tutti, frastagliata di scandali, abusi, violenze, recriminazioni, denunce… E la si potrebbe agevolmente sintetizzare nelle parole del presidente emerito Giorgio Napolitano “autentico orrore indegno di un paese appena civile.
Eppure c’è stato chi, a ridosso della chiusura degli OPG, vi è voluto entrare e restarci quanto più tempo possibile gli occorreva per capire, studiare, analizzare, guardare, osservare, vedere, ascoltare… per cercare altro oltre agli scandali, alle violenze, alle denunce, ai maltrattamenti. Nasce da questa idea la ricerca etnografica sul campo condotta da Luigigiovanni Quarta in un Ospedale Psichiatrico Giudiziario italiano tra il 2014 e il 2015 e diventata il libro Resti tra noi edito da Meltemi con prefazione di Fabio Dei.
Una ricerca, quella condotta da Quarta, che lo ha portato non solo a conoscere quell’universo ma anche a interrogarsi sul ruolo da egli stesso ricoperto nel relazionarsi con quell’ambiente “chiuso” e, soprattutto, con chi vi è, o meglio vi era, residente o vi lavorava. Un luogo altrimenti isolato e dimenticato, come coloro che vi sono stati internati, dai più che con esso non hanno relazione alcuna, o pensano di non averne e di non doverne avere. Eppure l’esistenza stessa di simili istituzioni e persone dovrebbe portare ognuno a interrogarsi sull’umano essere, sul male e sulla incapacità o ridotta capacità di intendere e di volere. Sulle conseguenze e sui riflessi che tutto questo inevitabilmente ha sulla società che si staglia e si sviluppa intorno ad essi.
Non puoi vivere, lavorare, studiare, indagare aspetti e fenomeni delicati o criminali che coinvolgono le menti e la vita e illuderti che nulla cambi o si trasformi, intorno a te come dentro di te.
Nietsche in Al di là del bene e del male scriveva che “chi lotta con i mostri deve guardarsi di non diventare, così facendo, un mostro. E se tu scruterai a lungo in un abisso, anche l’abisso scruterà in te”.
Luigigiovanni Quarta ha scrutato a lungo l’abisso dell’OPG ma si è imposto di non focalizzare l’interesse solo sul buio, ha preferito seguire gli spiragli di luce, a volte esili altre più luminosi, per raccontare la sua visione di un’istituzione che potrebbe anche essere totale. In prima istanza, ha cercato di “seguire le regole” ma subito si è reso conto che non vi è regola scritta che regga in un universo così complesso e articolato dove alla fin fine, esattamente come per strada, a farla da padrone è sempre la regola non scritta del “potere” che in OPG coincide spesso con la negoziazione, con il saper ben interpretare segnali e simboli dei peculiari registri di comunicazione vigenti.
Ha voluto, Quarta, concentrarsi sull’umanità degli internati, spesso celata, occultata o addirittura dimentica. Perché in fondo, egli scrive, se lo scopo è trovare “la miseria umana, in un OPG è semplicissimo”.
Un’indagine, quella condotta sul campo da Quarta, che si basa fondamentalmente sull’osservazione diretta e sulla raccolta dei dati direttamente e limitatamente al campo di ricerca. Non avendo avuto l’autore il permesso di visionare la documentazione giudiziaria degli internati e avendo scelto di non accedere a quella sanitaria, tutto ciò che egli ha scritto riguardo le storie di vita è tratto da interviste o conversazioni con i diretti interessati. Falsata in qualche modo dalla possibile non totale attendibilità di alcuni racconti ma resa più autorevole proprio dall’assenza di intermediazione o pregiudizio dovuto alla conoscenza della pregressa storia di ognuno dei suoi interlocutori.
E, nonostante durante la sua ricerca Quarta abbia sempre cercato di vedere oltre la semplice apparenza – principio cardine di una degna ricerca etnografica sul campo – cercando l’umanità, la bellezza della vita comunque e la speranza, il male, o meglio i mali, di una struttura come l’OPG gli sono venuti tutti incontro. Non da ultimo il tempo che, in tali luoghi, si dilata a dismisura al punto da diventare “asfissiante nella sua immobilità”.
Riesce l’autore, in questo passaggio, a rendere quasi tangibile il peso del tempo, scandito da ritmi e regole, prigioniero anch’esso di uno spazio che appare sempre più limitato e scorre lento come i granelli di sabbia all’interno di una clessidra, a volte portandosi dietro intere vite, comunque già perdute forse, al pari della libertà.
Non che gli internati siano nel braccio della morte, avranno per certo un futuro, ma l’autore sottolinea lo scandire del tempo che sembra, e in un luogo come l’OPG lo è per davvero, monotono e infinito. Più che in una normale prigione. Perché è così che viene fisicamente e mentalmente percepito.
Un luogo, l’Ospedale Psichiatrico Giudiziario, nel quale gli internati sono parsi essere identificati con la malattia attraverso un inesorabile processo di spoliazione, “una lenta e rituale sottrazione di ogni rappresentazione pregressa tramite la quale il soggetto poteva pensarsi e definirsi”. Il risultato è la sua “reificazione in una non-persona”. E assenza, mancanza sembrano essere proprio i termini che meglio definiscono questi luoghi, per Quarta. Luoghi che sono stati chiusi, smantellati, dimenticati e sostituiti. Ma delle persone che vi erano internate e delle loro vite cosa ne è poi stato?
Nell’aprile 2019 l’Osservatorio sul superamento degli OPG e sulle REMS ( stopopg.it ) e Coordinamento REMS-DSM hanno condotto un’indagine, tramite questionario inviato a tutte le 31 REMS attive sul territorio italiano, per ottenere dati aggiornati sul loro funzionamento dall’apertura nel 2015 fino ad oggi ed effettuato numerose visite nelle strutture. Hanno risposto al questionario 24 delle 31 strutture interpellate.
Le persone transitate nelle REMS dalla data di apertura fino al marzo 2019 sono state complessivamente 1580, quelle dimesse 1029, mentre il totale dei re-ingressi è pari a 51 (ovvero il 3,2% dei transitati).
Risultano 90 Trattamenti Sanitari Obbligatori (TSO), 80 contenzioni, 4 suicidi, 4 tentati suicidi, 202 aggressioni ad altri internati, 161 aggressioni ad operatori, 98 allontanamenti.
Il personale dedito alla vigilanza è quasi pari a quello “sociale”, espressione di “un’attenzione alla sicurezza ma anche di una possibile visione (ancora o di necessità) custodialistica”. Si conferma un “impianto forte che probabilmente potrebbe essere declinato in modo più funzionale alla cura e alla riabilitazione”.
La provenienza degli internati è prevalente dalla libertà (41,4%), a seguire dal carcere (39,7%).
Per gli operatori dell’Osservatorio, il rischio che “i vecchi contenitori manicomiali, gli OPG, siano sostituiti dalle Rems è enorme”, per questo monitorano costantemente la situazione, anche con visite dirette nelle strutture. Questa tipologia di istituti dovrebbe essere l’extrema ratio, come previsto anche dalla Legge 81/2014 e necessita un controllo costante affinché i diritti delle persone assistite siano tutelati, egual discorso vale per gli operatori, ai quali “non possono essere richieste funzioni di custodia ma solo di cura”. Bisogna sincerarsi non vi sia coercizione né segregazione.
Sottolinea Quarta nel testo che il corridoio della OPG viene da “alcuni chiamato reparto, da altri braccio”. Indicazione che ben rappresenta come gli Ospedali Psichiatrici Giudiziari siano stati visti, percepiti e di cosa forse siano effettivamente stati: un’istituzione a cavallo tra un manicomio e un carcere. Con i difetti di entrambi. Ed è proprio questo che si vorrebbe non fossero o diventassero le REMS.
Parla, per esempio, Quarta degli “ergastoli bianchi”, della storia di persone entrate con una misura di sicurezza “che aveva una fantomatica durata temporale” e che, proroga dopo proroga, hanno trascorso la loro intera vita in “istituzioni detentive e di cura”.
Il registro narrativo utilizzato da Luigigiovanni Quarta in Resti tra noi pone lo stesso autore al centro della narrazione, con il suo “io” che racconta l’OPG attraverso se stesso. Si è trattata per certo di una scelta ardita ma è riuscito egualmente Quarta a non esprimere giudizi diretti o conclusioni affrettate invitando così, indirettamente e implicitamente, il lettore a fare altrettanto. Il suo scritto si rivela essere, in questo senso, una lettura “particolare” e un lettore poco attento o privo di nozioni, anche solo basilari di antropologia ed etnologia, potrebbe non riuscire a cogliere appieno la peculiarità e la forza del suo narrato. Ma questa non è necessariamente una critica al lavoro ottimo svolto da Quarta, il quale è riuscito a indagare a fondo il male e il malessere alla ricerca continua dell’umanità e della “vita” in grado di illuminare qualunque buio e di raccontare tutto questo in maniera incisiva e originale.