Quando ti viene recapitata una busta: “Agenzia delle entrate-riscossione”, cosa pensi? Che il tuo commercialista ha fatto un errore, e ora il fisco ti chiede il “dovuto”. No. Il commercialista è innocente. Gira e rigira il malloppo di carte che gli hai portato, e alla fine, in carattere microscopico, individua la causale: “Provvedimento relativo a sentenza civile emessa da Corte d’Appello, anno 2007, numero 000001837 sottonumero 0”; si specifica che “sono responsabili in solido del pagamento di questa cartella i seguenti obbligati: Riccardo Pacifici”. E cos’abbiamo mai combinato, Pacifici ed io? “Omessa imposta di registro su sc.1847/07 Corte d’Appello Priebke/Vecellio +1”.
Priebke? Sì, proprio lui: quell’individuo che wikipedia così descrive: “E’ stato un militare e criminale di guerra tedesco, agente della Gestapo e capitano delle SS durante la seconda guerra mondiale. In Italia è stato condannato all’ergastolo per aver partecipato alla pianificazione e alla realizzazione dell’eccidio delle Fosse Ardeatine”. Quell’individuo si è sempre difeso sostenendo di aver obbedito agli ordini, e di non aver avuto altra scelta che quella di eseguirli; è ben descritto, in almeno un paio di libri di utile lettura, scritti da Robert Katz: “Morte a Roma, il massacro delle Fosse Ardeatine”, e “Dossier Priebke. Anatomia di un processo”. Di mio posso aggiungere di aver trovato, negli archivi di College Park nel Maryland, un documento redatto da un agente segreto americano a Roma; in un rapporto ai suoi capi individua Priebke (e altri gerarchi nazisti) come “persecutore e torturatore di partigiani ed ebrei”; molti mesi prima dell’eccidio alle Ardeatine. Quel documento insomma smentisce la linea difensiva: Priebke non solo in quell’occasione si è macchiato di crimini imperdonabili. Indubbiamente qualcuno non sarà stato contento che quel documento sia stato reso pubblico. Di questa “scontentezza”, sono contento.
Priebke, si ricorderà, incautamente rilascia un’intervista a un inviato dell’americana “ABC”, Samuel Donaldson, che lo scova in Argentina, a San Carlos de Bariloche. Quell’intervista fa scalpore, riapre la ferita mai rimarginata delle Fosse Ardeatine; gli argentini, che fino ad allora hanno chiuso entrambi gli occhi, in fretta e furia impacchettano Priebke e lo spediscono in Italia, dove un tribunale militare lo processa. Il 1 agosto1996 la Corte, pur riconoscendo le responsabilità dell’imputato, ritiene di dover applicare le attenuanti generiche, e dichiara di “non doversi procedere, essendo il reato estinto per intervenuta prescrizione”; ne ordina l’immediata scarcerazione. Una sentenza accolta con grande indignazione dai familiari delle vittime delle Ardeatine, dalla comunità ebraica di Roma, dalla Roma civile e democratica. La pacifica protesta attorno alla sede del tribunale militare, si protrae fio a notte fonda. Interviene il ministro della Giustizia di allora, il professor Giovanni Maria Flick, che riesce a trovare una norma che blocca l’iter di scarcerazione, e dispone un nuovo processo. Priebke viene infine condannato all’ergastolo; lo sconta in parte nel carcere militare, poi ai domiciliari, in un appartamento che gli viene messo a disposizione da un signore che per quel che mi riguarda non merita di essere citato. Ai domiciliari Priebke resta fino a quando non sopraggiunge la morte, l’11 ottobre 2013.
Quella manifestazione dinanzi al tribunale militare di Roma non viene dimenticata. Priebke si ritiene vittima di una sorta di sequestro di persona, e – con i suoi legali – individua in Pacifici e in chi scrive, i responsabili del sequestro. Ci troviamo indagati, finiamo sotto processo. Assolti in primo grado, in secondo grado, in Cassazione. Pago di tasca mia l’avvocato che mi ha difeso, non chiedo un centesimo di risarcimento per il danno che la vicenda mi ha procurato: da Priebke non voglio aver nulla a che spartire. Priebke, in quanto querelante-soccombente è condannato a pagare le spese processuali. Per quel che mi riguarda la vicenda finisce. Ho anche un certo qual fastidio a dovermi occupare di lui, professionalmente, quando occasionalmente balza ancora agli onori della cronaca. Se è un collega che se ne occupa al posto mio, non mi dispiace. Un certo DNA antifascista e antinazista ancora mi concedo il lusso di coltivarlo.
Passano gli anni; nel maggio 2013 mi viene recapitata una busta, con l’ingiunzione a pagare 285 euro per spese processuali. Cado, come si dice, dal pero. Chiedo chiarimenti, spiego che sono stato querelato, chi ha sporto la querela l’ha persa in tutti e tre i gradi; come mai mi si chiede di pagare al posto di chi ha perso la causa, ed è stato condannato? A questo punto il dialogo si fa surreale:
“Priebke risulta nullatenente, dunque anche se voi avete vinto la causa, dovete pagare le spese processuali. Lo Stato non può andare in perdita”.
“Scusi: un individuo mi querela, perde la causa, non paga le spese a cui è condannato, e sono io che devo pagare…Ho capito bene?”.
“Ha capito benissimo. Però, dopo, se vuole, lei si può rivalere nei confronti di Priebke”.
“Mi scusi: lo Stato non riesce a farsi rimborsare da un individuo, e pensate che possa farlo io, singolo cittadino?”.
“La capisco. Ma così dice la legge”.
“Senta, e se non pago?”.
“Si procede a recupero attraverso sequestro”.
Capite bene che non è questione di 285 euro. E’ questione di principio. In generale, perché non mi sembra molto giusto che chi viene assolto debba far fronte a spese che chi è condannato non paga; e nello specifico: un nazista mi perseguita, e alla fine devo pagare al suo posto, pur essendo messo nero su bianco che non sono colpevole di nulla.
Sollevo mediaticamente il caso. Se ne occupano giornali e televisioni. Il mio direttore di allora, Marcello Masi mi “ordina” di fare un servizio sulla vicenda. Imbarazzato gli dico: “Marcello, faccio un servizio su me stesso? Come si fa? Racconto i fatti a un collega e il servizio lo fa lui…”. Scuote la testa deciso: “No, lo fai tu, e lo racconti in prima persona”.
Obbedisco. Il servizio va in onda la sera del 7 maggio 2013. “Articolo 21” immediatamente si schiera al mio fianco, scendono in campo colleghi, Giuseppe Giulietti rilascia dichiarazioni indignate, qualche interrogazione parlamentare. Un paio di giorni dopo leggo su “Repubblica” un servizio di Gabriele Isman: racconta che un anonimo benefattore decide sua sponte di pagare lui, le spese processuali. A voce mi conferma di averlo saputo dall’agenzia delle entrate, la cosa si era risolta così. E’ evidente che qualcuno ha pensato di metterci una toppa in questo modo. Grazie, “anonimo”. Non ci penso più.
Evidentemente, c’è chi, tetragono, non dimentica. Siamo al settembre 2019. Tornato da una trasferta di lavoro, eccola, la busta dell’Agenzia delle entrate-riscossione”, che paziente mi aspetta: dentro un papiro di carte che non finisce mai; il cui succo è in un bollettino, che mi invita a pagare 291 euro e 21 centesimi entro sessanta giorni dalla notifica: “277.02 controllo tasse e imposte indirette anno 2007; 8.31 onesi di riscossione spettanti a Agenzia delle entrate-Riscossione; 5,88 diritti di notifica spettanti a Agenzia delle entrate-Riscossione”.
E “l’anonimo benefattore”? Chissà che fine ha fatto. Ammirevole, non c’è che dire, l’“Agenzia delle entrate-Riscossione”, che implacabile non dimentica: e si torna a farsi viva, sei anni dopo la prima ingiunzione; ventitré anni dopo la notte del presunto sequestro; una dozzina d’anni dopo che tre sentenze “in nome del popolo italiano” hanno certificato che quel sequestro non c’era stato, e che comunque né Riccardo Pacifici né io siamo colpevoli di alcunché.
A questo punto, la domanda: che fare? Pagare per quieto vivere e accettare beffa e oltraggio? Oppure? Ecco, una parola, un consiglio, da parte del presidente del Consiglio, del ministro della Giustizia, dei colleghi, sarebbe ben accetto, gradito. Poi se devo proprio pagare, lo farò nella veste di cittadino trattato da suddito. In monetine da 5 centesimi, ve lo dico fin da ora…