È legittimo domandarsi cosa ne sarebbe stato del neo-ottantenne Pierluigi Pizzaballa se la sua figurina, specie nei primi anni del mitico album Panini dei calciatori, non fosse stata così introvabile. Diciamo che stiamo parlando di un buon portiere, con una discreta carriera, quasi trecento presenze in Serie A e una persino in Nazionale, dunque non di uno sprovveduto o di un atleta di secondo piano. Ma diciamo anche che se non fosse stato la dannazione dei figli del boom, che con le paghette dei genitori riempivano con passione quella galleria di volti e di sogni, difficilmente si sarebbe trasformato nel fenomeno pop che, invece, è diventato, con la sua rarità e la sua importanza preziosa negli scambi. E diciamo anche che se l’Italia oggi è un paese del blocco occidentale con una certa tendenza al capitalismo, il merito è in parte suo, avendo abituato persino la generazione della speranza e della condivisione alla logica della contrattazione.
“Ti do Pizzaballa ma voglio in cambio almeno due-tre figurine”, se non di più, era uno dei mantra di chi ha avuto fra i sette e i vent’anni nei primi Sessanta, quando il nostro giocava a Bergamo e conquistava con l’Atalanta la prima e unica Coppa Italia dei nerazzurri orobici.
Un capitalismo indotto e bonario, quello legato alla figurina di Pizzaballa, ma pur sempre una forma di educazione sentimentale, non bisogna sottovalutarlo, come non bisogna sottovalutare il valore romantico di un personaggio legato indissolubilmente alla passione popolare, al desiderio di normalità e alla dilagante voglia di vivere che caratterizzava quegli anni.
Pizzaballa ci è rimasto nel cuore perché è stato lo specchio del nostro stato d’animo, in una stagione felice e, forse, irripetibile, in un tempo colmo di prospettive, in un’Italia in cui c’era meno rabbia, meno sofferenza sociale e persino lo scontro sportivo non usciva mai dai binari del buonsenso e del buongusto.
Auguroni di cuore, numero 1 tanto agognato e per nulla effimero!
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