Uno dei tanti processi per l’omicidio Calabresi. Scendiamo le scale del Tribunale di Milano. Si avvicina un cronista di Mediaset. “Te lo devo dire da anni: grazie, mi hai salvato la vita”, esordisce. Piero Scaramucci lo fissa con gli occhi sbarrati. E il collega spiega: “quando è scoppiata la bomba di via Palestro ero fuori Milano. Il direttore Mentana mi ha chiamato e mi voleva in diretta. Salgo in macchina, corro in autostrada e accendo Radio Popolare: sentivo la tua cronaca e raccontavo come se fossi stato lì. Grazie.” Piero fa un sorriso imperscrutabile, a metà tra il compiaciuto e l’ironico e se ne va.
Scaramucci in quella notte della bomba di via Palestro era lì, a fianco del Procuratore Francesco Saverio Borrelli, imperterrito a scegliere le parole migliori per raccontare il sangue, la distruzione, le prime ipotesi. Radio Popolare non ha mai creduto che fosse roba di mafia e basta. Cinque mesi dopo quella strage il Presidente della Repubblica Scalfaro dovette andare in televisione a pronunciare il famoso “io non ci sto”. Non ci sto alle manovre di apparati dello Stato, alle collusioni con poteri criminali e associazioni opache, ai tentativi di condizionare il passaggio tra Prima e Seconda Repubblica. Queste cose Piero Scaramucci le fiutava: le aveva già assaggiate ai tempi della strage di Piazza Fontana, quando collaborò al libro di controinformazione “Strage di stato”. In realtà Piero rifiutava questo termine, diceva che quella era informazione. Punto.
Durante il settenato di Scalfaro avevamo una fonte al Quirinale. Un alto funzionario che ci aiutava a capire il contesto. Piero si divertiva come un bambino a telefonargli da quando aveva scoperto che l’attaché militare si chiamava Paolo Scaramucci. Piero si schiariva la voce, componeva il numero, e poi declamava alla cornetta: “Sono Scaramucci, mi passi il Consigliere Tal dei Tali!” E i centralinisti glielo passavano senza fiatare. Finita la telefonata volavano le risate e poi ci riferiva del colloquio.
Piero Scaramucci aveva la (sempre più) rara qualità della lungimiranza. Solo chi aveva uno sguardo lungo poteva lasciare nel 1976 momentaneamente la Rai e fondare Radio Popolare: mediare tra la sinistra più litigiosa e settaria sulla piazza, imporre un metodo giornalistico a persone abituate a scrivere volantini e a giovani talentuosi ma inesperti. Piero aveva capito che era il tempo giusto e c’erano i mezzi tecnici necessari a dare voce a chi, fino ad allora, ne era stato privato. E così anche in mille altre occasioni: capiva in anticipo la crescita della Lega, la spirale delle guerre balcaniche, il risorgere di forme di fascismo. Errori? Alcuni, come capita a chiunque. Ma a noi giovani redattori diceva di non preoccuparsi, di osare, di non avere timori reverenziali per nessun partito, movimento o moda. L’onestà del giornalista non sta nel non sbagliare mai, ma nel metterci tutto per studiare, raccogliere dati, presentare i fatti e contestualizzarli, evitare la retorica ed essere chiari. Che è esattamente quanto Piero Scaramucci ci chiedeva di fare ogni giorno.
Un’ultima cosa: adesso che te ne sei andato possiamo considerare condonate le migliaia di sigarette che ti ho scroccato?
Danilo De Biasio
(attualmente direttore del Festival dei Diritti Umani, ma per una decina di anni caporedattore di Piero Scaramucci a Radio Popolare)