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Morti nere, non bianche. Intervista a Marco Bazzoni

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Oltre seicento i decessi sul lavoro dall’inizio di quest’anno. Ciò che si fa per contrastare questo stillicidio, e ciò che si dovrebbe fare in termini di prevenzione. Il mondo dell’informazione, a sua volta, deve sentirsi chiamato in causa

«Sono oltre 600 i morti sul lavoro dall’inizio dell’anno. Un bollettino di guerra e una “mattanza” quotidiana che non conosce soste. Le chiamano “le stragi nell’indifferenza” e mai parole furono più vere. Morti che avvengono, dicono, per “tragiche fatalità”. Non esistono “fatalità”, solo responsabilità», afferma Marco Bazzoni, operaio metalmeccanico e rappresentante dei lavoratori per la sicurezza a Firenze.

Bazzoni, sul sito per la libertà d’espressione Articolo 21, redige con assidua cadenza una lunga, dettagliata e triste lista di nomi di persone morte nei luoghi di lavoro e sulle strade in itinere, ossia durante il normale percorso di andata e ritorno dall’abitazione al posto di lavoro o nel tragitto che collega due luoghi di lavoro. Una cifra che sfiora le 600 vittime quest’anno: 300 delle quali morte nel luogo di lavoro. Bazzoni riporta nomi, cognomi, età e aziende presso le quali queste persone erano impiegate. Un lavoro certosino che l’“operaio d’inchiesta” promuove «per illuminare un fenomeno spesso oscurato» e lo fa grazie ai dati resi noti dall’Istituto nazionale Assicurazioni Infortuni sul lavoro (Inail) e cercando tra le morti non ufficiali.

«Non riporto numeri, dati, – afferma Bazzoni –, non diffondo dati statistici, dedico la dovuta riconoscenza a chi muore sul posto di lavoro. A ogni numero, e ci tengo a dirlo con forza, corrisponde una persona, un nome, una famiglia distrutta dal dolore che si è ritrovata di colpo priva di un sostegno affettivo e economico».

“Morti Bianche”, qualcuno si ostina ancora a chiamarle: «Di bianco non hanno nulla – prosegue Bazzoni –, sono avvolte dal nero del lutto e del dolore, talvolta dal nero della precarietà, spesso dal nero dell’indifferenza e dell’ipocrisia. Morti che non dovrebbero esserci in un Paese come l’Italia che vede nella propria Costituzione il primo articolo dedicato al lavoro e alla dignità, che il lavoro consente: dovrebbe consentire. Invece le morti sul lavoro rimangono troppo spesso avvolte da un alone di mistero e da quella parola “fatalità” che non si dovrebbe nemmeno utilizzare. A ogni morte corrisponde una responsabilità. È urgente accendere con maggior vigore i “riflettori” su queste morti. La scorsa settimana – prosegue Bazzoni – altre due persone sono decedute sul posto di lavoro lasciando sole le famiglie, due imprenditori: Pasquale Basso di 54 anni e Luigi Frabotta di 53 anni. Mi auguro che il nuovo governo, che in queste ore chiede la fiducia, decida di riservare una particolare attenzione alla sicurezza sul lavoro e a questo infinito dramma».

Stime recenti dell’Organizzazione internazionale del lavoro (Oil) dicono che ogni anno nel mondo sono circa 2,78 milioni le persone (tra le quali 12.000 bambini) che muoiono mentre svolgono un’attività lavorativa; in Italia si contano mediamente 1 milione di infortuni e circa 1300 decessi sul lavoro; dunque, facendo una media, quasi 4 morti al giorno. Eppure, nel corso degli anni la diffusione di nuove tecnologie nei processi produttivi, i risultati della ricerca in questo settore e l’applicazione di nuove norme in materia di salute e sicurezza hanno consentito di ridurre l’incidenza del fenomeno. Negli ultimi 50 anni è stato registrato un calo progressivo di infortuni (nel 1963 i morti del lavoro furono 4644, un picco altissimo). Dal 2000 al 2016 il numero di morti si è progressivamente ridotto, ma negli ultimi tre anni i decessi sono tornati a crescere.

«Tra i nodi ancora da sciogliere vi è certamente quello di poter giungere una corretta applicazione del Decreto 81 (9 aprile 2008 – Testo unico sulla salute e la sicurezza, ndr) – prosegue Bazzoni – che prevede a esempio che attraverso le sanzioni riscosse dalle aziende siano attuati investimenti per la prevenzione, allestiti progetti dedicati alla prevenzione, fatte assunzioni di nuovi ispettori – sempre carenti – che siano programmati incontri formativi; questi introiti da sanzioni, invece, finiscono nel calderone generico della Sanità. Altra questione è la mancanza di un’identità nazionale omogenea nei servizi di controllo degli ambienti di lavoro [chiamati differentemente a livello nazionale, Spresal in Piemonte, Spisal in Veneto e Psal, in altre Regioni italiane, per fare solo alcuni esempi, ndr], o il fatto che la maggior parte degli ispettori al controllo sia destinato ad accertamenti contributivi e raramente alla sicurezza nei luoghi di lavoro».

I media generalisti riservano poca attenzione al tema delle morti sul lavoro, denuncia ancora Bazzoni: «sarebbe importante proporre servizi e approfondimenti regolari. Non basta raccontare i casi di morte, quando avvengono, inserendoli nella cronaca – conclude Bazzoni –. La prevenzione e la comunicazione sono le vie maestre. Prevenire è meglio che curare, dice un vecchio detto. E se qualcuno non la pensa così? Ricordo che dovrebbe invece essere così!». Anche i numeri sono importanti. «Non tutte le morti sul lavoro sono riconosciute dall’Inail. Resta il dato che anche le morti effettivamente riconosciute, sono oggi inaccettabili».

Come fare dunque? «Ci sono le evidenze scientifiche, ci sono gli interessi delle aziende e gli strumenti di lavoro, ci sono i rischi legati a ogni mansione e i benefici della prevenzione», si legge in un bel volume dal titolo Vittime, curato dal Gruppo di lavoro «Storie di infortunio» – Centro di documentazione per la promozione della salute (DoRS – www.dors.it) – Regione Piemonte, ma è necessario «creare spazi di dialogo e di confronto. Ora forse più che mai. Le parole sono importanti. […]». Com’è importante «Imparare dagli errori, coinvolgendo anche le figure che nelle aziende si occupano di infortuni e di prevenzione […] consapevoli che la sfida a lungo termine è aumentare la cultura delle prevenzione».

Vittime è un volume del 2018 che consigliamo e contiene dodici storie narrate (ma vere) curate da Federico Magrì (che in una chiacchierata informale ci ha fornito alcuni spunti preziosi per redigere questo articolo), Paolo Picco, Irene Conti, Emilio Duminuco, Fabrizio Gallina e Paolo Mello, Irene Conti, Roberto Costanzo, Giovanni Debernardi, Luigi Pardi e Paolo Picco.


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