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L’antidemocrazia di Viktor Orbán

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In democrazia, ovviamente, ciascuno è libero di invitare chi meglio crede. Sarebbe, dunque, un errore da parte nostra prendercela con Giorgia Meloni per il fatto di aver ospitato, ieri, sul palco di Atreju, festa nazionale di Fratelli d’Italia e prim’ancora della componente ex AN del PDL, il premier ungherese Viktor Orbán.
Sarebbe, tuttavia, un errore altrettanto grave non indignarsi pubblicamente per ciò che Orbán ha detto e continuna a ripetere, soprattutto per quanto concerne la questione migratoria. Il nostro, infatti, è premier di un Paese che deve tutto all’Europa, la cui storia è ben nota e che senza il Vecchio Continente sarebbe ancora un’ancella dell’Orso russo, specie ora che al Cremlino c’è un nostalgico di quell’esperienza come Putin. Oltretutto, l’Ungheria è uno dei massimi beneficiari dei fondi continentali, salvo poi dimenticarsi che a tanti diritti equivalgono altrettanti doveri, primo fra tutti quello dell’accoglienza nei confronti degli ultimi del mondo in fuga da miseria, guerre e disperazione.
La tesi orbaniana della chiusura totale, di cui la nuova destra italiana si è fatta portatrice, è la stessa del cosiddetto gruppo di Visegrád, ossia di alcune nazioni ex sovietiche che, dopo aver tratto il massimo vantaggio possibile dall’ingresso in Europa, hanno pensato bene di non restituire nulla, sprofondando, vedasi il caso della Polonia, in una mal celata forma di fascismo che purtroppo, non essendo stata adeguatamente contrastata a suo tempo, sta facendo scuola.
Dicevamo dell’Ungheria. Ci sono stato in luglio per una Summer School europea organizzata da Enrico Letta e dalla Scuola di Politiche, in collaborazione con esperienze continentali simili, a contatto con centoventisei ragazzi provenienti da ogni parte d’Europa. Ebbene, il peso di Orbán e delle sue politiche si avverte eccome, come si avverte la sua concezione autoritaria e pericolosa del potere, come si avvertono le libertà perdute e i diritti civili calpestati. Non so perché, ma camminando per le vie di Budapest si ha l’impressione di trovarsi in un irrisolto ’56, in un mondo fuori dal mondo, in un tempo fuori dal tempo, in una realtà parallela, e ciò che lascia senza parole è che eravamo nella capitale. Figurarsi, quindi, cosa succede abitualmente nelle aree rurali e nelle zone di confine, là dove l’orbanismo ha la propria base inattaccabile e dove si possono ascoltare discorsi che non è sbagliato ricondurre al nazismo, con autentici incitamenti all’odio da parte di frange della popolazione alquanto ignoranti e pericolosamente estranee al concetto di democrazia. E no, compiere questa denuncia non è élitarismo o rifiuto di una connessione sentimentale con le masse: significa dire le cose come stanno, senza infingimenti, senza indorare la pillola, senza raccontarci un’Europa dei sogni che purtroppo ancora non esiste, senza cercare di rendere accettabile un modello che accettabile non è, senza voltarci dall’altra parte, senza rinunciare alla funzione primaria della nostra professione e al richiamo al ruolo, storico, presente e futuro, di un’Europa che o è la casa di tutti i diritti o non è niente.
Ieri, a Roma, sul palco della festa nazionale di Fratelli d’Italia, il presidente ungherese ha messo in discussione tutto questo e molto altro ancora. Al che, ci corre l’obbligo di informare lui e i suoi sostenitori, a ogni latitudine, che per noi la democrazia non è un orpello e, soprattutto, che la nostra idea di democrazia non ha nulla a che spartire con il pericoloso declino cui stiamo assistendo ovunque, fino a scivolare in una sorta di democratura senza neanche rendercene conto.

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