“How dare you?”, come osate? Questa frase, apparentemente semplice e invece iconica nella sua eccezionalità, rimarrà scolpita nella storia dei grandi discorsi, al pari dell'”I have a drem” di Martin Luther King e delle riflessioni sul rapporto fra il singolo cittadino e lo Stato di John Fitzgerald Kennedy. Rimarrà come la Nuova frontiera, ancora Kennedy, l’inizio della distenzione nei rapporti fra Est e Ovest, il “Whatever it takes” di Mario Draghi il giorno in cui, salvando l’euro, salvò di fatto l’Unione Europea e altre analisi che, per potenza ed efficacia, hanno impresso una svolta all’umanità.
Il 23 settembre 2019 rimarrà, dunque, alle Nazioni Unite, come il giorno di Greta Thunberg, ossia la data in cui non una ragazza svedese di sedici anni ma un’intera generazione è andata davanti a chi decide le sorti del mondo a metterne in risalto l’assoluta inadeguatezza.
Il discorso di Greta rimarrà come una forma di denuncia e di lotta, come un simbolo di impegno e di passione civile, come una speranza collettiva di cambiamento e di riscossa. Rimarrà come l’emblema di una battaglia cominciata in solitaria di fronte al Parlamento svedese e ora mondiale, con le piazze di tutto il pianeta che si sono animate venerdì scorso e continueranno ad animarsi, al punto che venerdì prossimo il ministro della Pubblica istruzione Fioramonti ha giustamente concesso una giustificazione di Stato agli studenti che scenderanno in piazza per una nuova manifestazione contro la distruzione della Terra.
Greta Thunberg ha scosso le coscienze del mondo forse ancor più di quanto abbia saputo fare papa Francesco con l’enciclica Laudato si’, in quanto ha condotto per mano una nuova generazione sulla ribalta della politica, imponendo un argomento al centro del dibattito globale e trasformandolo da materia per studiosi ed esperti in un qualcosa di glamour, in un qualcosa che fa tendenza, di cui tutti parlano perché è di moda, riuscendo nell’impresa di rendere gradevole e indispensabile un tema che un tempo veniva derubricato alla voce “cose noiose”.
Qualcuno obietterà che la questione climatica e ambientale, dopo l’ondata di Greta, sia diventata anche un fenomeno pubblicitario, il che è vero, come dimostra la corsa alle borracce in segno di rifiuto della plastica e la fabbrica dei sogni hollywoodiana che si è subito messa al passo coi tempi, persino per quanto concerne i telefilm per bambini con tanto di risate in sottofondo. Tutto vero e tutto estremamente positivo. Del resto, non fu il “soft power” l’arma in più degli Stati Uniti durante la Guerra fredda? A parer mio, per la difesa dell’atlantismo hanno fatto di più i film western e le commedie con Marilyn Monroe del viaggio di De Gasperi in America nel gennaio del ’47. Se la galassia sovietica non ha mai avuto una particolare presa sull’opinione pubblica di casa nostra, pur producendo, talvolta, dell’ottimo cinema e pur esprimendo esponenti di una levatura culturale considerevole, è perché non è mai riuscita nell’impresa di trasformare le proprie punte di diamante in altrettante icone pop.
Che Greta sia diventata una star la prima a saperlo è lei, come testimonia la saggezza con cui amministra la propria notorietà e si fa paladina di una sfida per cui non c’è più tempo. Che il fatto di essere un’adolescente la aiuti non poco lo sa benissimo, il che dimostra una maturità e una consapevolezza non comuni. Che si debba sfruttare tutto questo per trasformare l’affermazione iconica di una singola persona nella vittoria di una comunità in cammino è ciò che stiamo progressivamente capendo a ogni latitudine. La speranza è che la sinistra, a cominciare proprio da quella americana, riesca ad andare al di là del fascino trendy di questa ragazza, costruendo sul suo mito una narrazione concreta, in grado di costituire un’arma di ribellione e di riscatto per coloro che perdono la vita a causa dei cambiamenti climatici, dello sfruttamento smodato delle risorse ambientali e della progressiva distruzione del paesaggio e del territorio per favorire una cementificazione selvaggia e uno sviluppismo da quattro soldi che ha arricchito l’uno per cento della popolazione a scapito del restante novantanove.
La grandezza di Greta sta nel fatto di aver capito benissimo tutto questo e nell’aver saputo connettere, con i suoi discorsi e il suo stile sanamente aggressivo ma, al contempo, straordinariamente ponderato, la questione sociale e la questione civile, il tema ambientale e quello economico, la necessaria riflessione sulle falle sempre più evidenti del modello capitalistico e l’indispensabile analisi sul cambio di paradigma non più rinviabile per la salvezza dell’umanità. Insomma, non ha fatto dell’ambiente un feticcio, un mantra o un orpello stucchevole, come purtroppo è accaduto qua da noi, confinando qualsiasi movimento e partito ambientalista a percentuali da prefisso telefonico. Al contrario, ha lasciato intendere a livello globale che la questione climatica, il tema del lavoro, i diritti civili, lo sviluppo sostenibile e la possibilità di continuare ad abitare su questo pianeta senza rischiare l’estinzione o nuove, violentissime guerre sono argomenti strettamente correlati, ispirandosi anche a saggi e proposte in controtendenza come quelle di Naomi Klein e di altri pionieri della materia.
Ciò che stupisce, pertanto, non è solo la sua nettezza, che pure la aiuta a livello comunicativo, quanto la sua visione globale, ossia ciò che l’ha resa leader e punto di riferimento di una corsa contro il tempo che è la prima a sapere di non potersi né doversi intestare. Se l’enorme sforzo che siamo chiamati a compiere nei prossimi anni non sarà stato vano, una parte del merito sarà anche sua. Per questo, cortesemente, assegnatele il Nobel per la Pace.
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