E’ il 2050! Teresa, la protagonista della nostra storia, ambientata a Freetown, in Sierra Leone, non è una donna come tante, ha solo 42 anni e sta per diventare nonna, a causa dell’imminente nascita di una nipotina. Nell’attesa di questo arrivo, che attende con ansia e trepidazione, ripensa alla sua adolescenza e al viaggio che 25 anni prima l’ha portata fin lì.
Era il 2024, quando, all’età di 16 anni, viveva in Germania, ad Essen, insieme alla sua famiglia, di origini italiane, i cui avi vi si erano trasferiti a metà del ‘900; una vita, la sua, incentrata sulla scuola, sull’amica del cuore, Tania, e sul suo ragazzo, Hans. Un’adolescenza, tuttavia, su cui gravava il peso della miseria e della violenza a causa di una guerra che all’epoca vedeva coinvolta la Germania e l’Europa tutta. Un’adolescenza contrassegnata dalla quotidiana fuga nei rifugi sotterranei per via dei bombardamenti, dalla presenza di cadaveri accatastati per le strade, dalle macerie degli edifici crollati e, da ultimo, dalla fame e dalla carestia. Finchè un giorno anche il corpo di Tania rimase esanime sul marciapiede dopo un colpo di arma da fuoco. Fu poco dopo che i genitori di Teresa, rimasti senza lavoro, non videro altra possibilità se non quella di emigrare verso l’Africa, come molti amici e parenti avevano già fatto prima di loro.
Una decisione questa non accettata da Teresa, che si vedeva strappata dalla sua vita di sempre, dall’amore del suo ragazzo, dai suoi nonni, dalla sua casa; costretta ad iniziare un viaggio senza certezze che, passando per l’Italia, li avrebbe portati nella terra promessa, l’Africa, appunto!
E’ così che inizia un viaggio infinito e sconvolgente, pieno di dolore e sofferenza, fatto di paura, fame e freddo, di piccole conquiste e grandi fallimenti, in cui ci si rialza sempre sorretti solo da un sogno, o forse dall’illusione, di una vita migliore. Un futuro che Teresa riuscirà a conquistare a costo di indicibili sofferenze.
C’è una densità narrativa e una forza inusuale in “Il paradiso alla fine del mondo” di Nicola Brunialti – autore televisivo e co-autore della canzone ‘Abbi cura di te’ di Simone Cristicchi, grande successo al Festival di Sanremo 2019 – edito da Sperling & Kupfer (2019), in cui l’autore racconta una migrazione al contrario in un immaginario mondo futuro e capovolto.
Quella che ci narra è la ricerca incessante di una vita degna di essere vissuta. Una storia questa, ambientata in un futuro (prossimo?) analoga a quella che potrebbe essere raccontata oggi dalle migliaia di migranti che ogni giorno cercano di sfuggire alle guerre, alle violenze e alle carestie che funestano parte di quel martoriato continente chiamato Africa.
La storia di Teresa e della sua famiglia, si mischia a quella di migliaia di disperati e a quella della piccola Greta, una bambina di soli 7 anni, messa su un camion dai suoi genitori che non avevano abbastanza soldi per affrontare il viaggio insieme a lei. E’ la storia di sofferenze tangibili, un racconto in cui la vita è appesa ad un filo che può essere “tagliato”, magari solo per ‘diletto’ del boia di turno. Ma, fortunatamente, in questa interminabile galleria degli orrori ci sono anche personaggi capaci di un’umanità che sembrava perduta, risucchiata dal tempo e dalle avversità.
Brunialti tratteggia personaggi fragili, eppure titanici nel mantenere salda la speranza, nonostante tutto. Un romanzo che fa male, che toglie il fiato costringendo a guardare in faccia una realtà alla quale spesso mostriamo le spalle.
“Nessuno mette in mare i suoi figli su una barca a meno che l’acqua non sia più sicura della terra” è la citazione di Warsan Shire all’inizio del libro. Bisognerebbe rifletterci.