Così come la Guerra civile spagnola è giustamente considerata il prologo della Seconda guerra mondiale, è altrettanto vero che la cosiddetta “Impresa di Fiume”, compiuta da Gabriele D’annunzio il 12 settembre 1919 fu, in pratica, il primo atto ufficiale del fascismo. E non è che fra il futuro Duce e il già acclamato Vate corresse buon sangue, tutt’altro; diciamo che Mussolini sposò i tratti che maggiormente gli convenivano del dannunzianesimo, salvo accantonarne scientemente le istanze democratiche e libertarie contenute, ad esempio, nella Carta del Carnaro, redatta da D’Annunzio medesimo e dal sindacalista rivoluzionario Alceste De Ambris e pubblicata l’8 settembre 1920.
Erano gli anni post-bellici, quando era ancora forte l’irredentismo che aveva condotto l’Italia in guerra per conquistare Trento e Trieste e molti consideravano, forse non a torto, quel conflitto la Quarta guerra d’indipendenza dopo le tre del periodo risorgimentale. Allo stesso modo, non c’è dubbio che dietro le gesta fiumane, condite da retorica, eccessi e proclami eroici più di facciata che effettivi, non c’è dubbio che battesse nel cuore del poeta pescarese quello spirito risorgimentale che animava, all’epoca, una parte consistente della classe politica e del panorama culturale del nostro Paese.
Il punto è che quei proclami ardimentosi, che ben si sposavano con il futurismo marinettiano e con il piglio guerresco che animava quella stagione, costituirono un perfetto terreno di coltura per le squadracce che cominciavano a formarsi e a imperversare nella Penisola, annunciando la rivoluzione e portando avanti, al contrario, un falso ideale patriottico basato, in verità, solo su nazionalismo, isolazionismo, rivendicazioni assurde e pericolose e sulla brama di potere di un uomo solo che ben presto sarebbe diventato il padrone di tutto non tanto per meriti suoi quanto, purtroppo, per viltà e abbandono degli avversari.
Ricordare, a un secolo di distanza, la barbarie fiumana, la debolezza dei governi Nitti e Giolitti, la crisi irreversibile del notabilato liberale e le basi che condussero, poi, alla Marcia su Roma, germi già ben presenti nella società e pronti a essere sparsi da un burattinaio più abile degli altri nel cogliere l’occasione, compiere quest’azione di memoria storica e, al tempo stesso, di contrasto è un buon modo per opporsi alle derive contemporanee. Tanto per fare un esempio, la democrazia diretta (non a caso, presente all’articolo 2 della Carta del Carnaro) che altro non è che un grimaldello per scardinare la democrazia rappresentativa, i partiti, le istituzioni e l’assetto costituzionale nel suo insieme. Se non la Marcia su Roma, il risultato di simili follie è comunque una pericolosa degenerazione, lesiva per tutti e foriera di innumerevoli guai per il nostro vivere civile. A un secolo di distanza, è bene, dunque, rinfrescare la memoria di chi oggi, con troppa disinvoltura, apre a scenari apparentemente gratificanti ma in realtà figli del diavolo, di cui ad approfittare non sono mai gli ingenui promotori di avventure senza sbocco bensì gli astuti manovratori nell’ombra, capaci di emergere nel momento decisivo e devastare decenni di conquiste sociali e di diritti.
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