La Cassazione ha annullato la condanna per diffamazione inflitta due anni fa dalla Corte d’appello di Milano al giornalista Oscar Giannino a risarcire 15 mila euro in favore di Luca Cordero di Montezemolo per aver pronunciato al termine di un comizio elettorale – tenutosi a Perugia il 12 gennaio 2013 dopo che il noto giornalista economico si era lanciato sulla scena politica con il movimento “Fare per fermare il declino” – la frase: “Prima della nostra rottura, Luca Cordero di Montezemolo mi ha chiesto: tu quanto mi costi?”, riportata poi anche sul quotidiano il Giornale dell’Umbria. L’ex patron Ferrari era andato su tutte le furie ed aveva richiesto un indennizzo di 700 mila euro per danno morale e alla propria reputazione ed immagine. Ma Giannino replicò di non aver detto proprio così, asserendo di non aver mai voluto screditare Montezemolo, presidente di “Fondazione Italia Futura”.
Il tribunale di Milano dette ragione a Giannino perché la frase “Quanto mi costi” significava quanti seggi pretendeva per “rafforzare la formazione centrista alla quale Montezemolo stava lavorando”. In 2° grado il verdetto fu, però, ribaltato. Infatti la Corte d’appello accolse le tesi dell’ex patron Ferrari anche se ridusse drasticamente la sua richiesta di risarcimento perché quel “quanto mi costi significava la richiesta nell’accezione più comune del pagamento di un prezzo. Era quindi allusiva a pratiche sleali dal punto di vista politico, con il risultato di gettare discredito su chi le avrebbe asseritamente compiute”.
Il 5 settembre scorso la terza sezione civile della Suprema Corte, presieduta da Giacomo Travaglino, ha disposto un nuovo giudizio di 2° grado a Milano che dovrà attenersi agli importanti principi giuridici fissati nell’ordinanza n. 22178, cliccare su http://www.italgiure.giustizia.it/xway/application/nif/clean/hc.dll?verbo=attach&db=snciv&id=./20190905/snciv@s30@a2019@n22178@tO.clean.pdf
Gli ermellini, citando anche decisioni della Commissione Europea per i Diritti dell’Uomo, hanno in particolare affermato che “il bilanciamento tra la libertà di espressione del pensiero e il diritto alla riservatezza della persona si attua con pesi e misure profondamente differenti quando la libertà di stampa ha ad oggetto questioni politiche e di pubblico interesse, ovvero tocca la persona di soggetti politici, cui si richiede un alto tasso di resistenza e di tolleranza alla critica, soprattutto allorché quest’ultima si inserisca in un contesto di agone politico – come quello qui in discussione – dove prevale l’interesse a tenere alto il livello di dibattito pubblico”.
Pertanto nel soppesare i due opposti valori “bisogna circoscrivere l’analisi di una «notizia diffamante», nel contesto politico, ove il linguaggio ha sempre carattere salato, suggestivo e allusivo, poiché tende alla
captatio benevolentiae, e quindi ammette invasioni di campo nella sfera privata molto più ampie rispetto ad altri contesti di critica giornalistica. Affinché il dibattito politico, inteso come il «cuore della democrazia», possa svolgersi il più liberamente possibile, è così ammesso il ricorso ad affermazioni esagerate, provocatorie e persino smodate”.
Secondo la Cassazione “la libertà di dibattito politico, in effetti, è la più ampia forma di manifestazione della libertà di espressione il cui esercizio – che avviene tradizionalmente attraverso il pubblico comizio, l’intervista, il mezzo della stampa, anche tramite l’uso di altri media e di Internet – misura il tasso di democrazia raggiunto in un Paese, in quanto è precipuamente finalizzato a fornire al pubblico un mezzo per scoprire e formarsi un’opinione sulle idee e le attitudini dei diversi soggetti che si confrontano nell’arena politica”.
“Il diritto di critica politica, soprattutto quando comporta giudizi di valore, – si legge ancora nella decisione redatta dal consigliere Francesca Fiecconi – è dunque idoneo a legittimare l’attività di cronaca giornalistica anche con l’uso di toni allusivi, accesi, graffianti e smodati, senza che con ciò necessariamente sfoci nell’ambito dell’illecito, fino al punto in cui esso non trascenda in attacchi e aggressioni personali diretti a colpire la «figura morale del soggetto criticato». Del resto, la contesa politica non potrebbe svolgersi sul piano della pura e gratuita invettiva e denigrazione personale, e non sarebbe quindi lecito diffondere in pubblico considerazioni di tal tipo solo per acquisire consensi in danno del contraddittore”. La Suprema Corte ha infine ribadito che “il limite immanente all’esercizio del diritto di critica è, pertanto, costituito dal fatto che la questione trattata sia di interesse pubblico e che, comunque, non si trascenda in gratuiti attacchi personali”.
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